Festival di Cannes/ Recensione: DOPO LA BATTAGLIA, un film egiziano che non si è filato nessuno, brutto e però interessante parecchio

Il secondo film in concorso, del cairota Yousri Nasrallah, ci racconta le ambiguità dell’Egitto post-rivoluzione. Protagonista un pover’uomo che per ingenuità, per stupidità si è schierato al momento sbagliato con il vecchio regime morente, e adesso è un paria, un reietto. Una specia di Accattone pasoliniano delle Piramidi. Con un lato mélo che ricorda Fassbinder. Purtroppo lo stile e i linguaggi sono arcaici fino alla goffaggine. Film irreparabilmente brutto, anche imbarazzante. Ma molto, molto interessante anche nei suoi errori. Di quei brutti-però-da-vedere. Voto 5.
Baad El Mawkeea (Dopo la battaglia), regia di Yousri Nasrallah. Con Menna Shalabi, Bassem Samra, Nahed El Seabai.

Questo Dopo la battaglia rischia di essere il film più derelitto tra quelli in concorso. Già l’hanno proiettato in contemporanea con la cerimonia d’apertura qundo tutta l’attenzione era concentrata sulla montée des marches, il che nel codice dei festival vuol dire qualcosa, e qualcosa di non bello. Un film fragile, pieno di difetti, pure imbarazzante. Mi chiedo perché buttarlo nell’arena di Cannes. Troppo incastrato, quest’ultimo prodotto del regista egiziano Yousri Nasrallah, in linguaggi, codici comunicativi, convenzioni narrative, stili difficilmente assimilabili ai nostri gusti/disgusti e alle nostre visioni. Questa impressione di alterità (e di estraneità) l’ho provata di fronte a quasi tutti i film arabi, in particolare egiziani, che mi è capitato di vedere qua e là per festival e rassegne in questi ultimi anni, e non sono pochi. Impressione che non ho mai provato invece davanti a film anche provenienti da mondi più remoti ed enigmatici, film kirghisi, mongoli, indonesiani, etiopi. Ma il cinema arabo è altra cosa, intriso di una peculiarità che chissà perché non riusciamo a penetrare. Dopo la battaglia è scompensato, confuso, indeciso sui suoi obiettivi, con brutture di messinscena per noi (intendo per noi abituati agli standard del cinema d’occidente) insostenibili, e cadute di gusto da lasciare senza fiato per l’ingenuità e la noncuranza (la scena in cui babbo e mamma e i due figlioli giocano ai cavalli e ai cavalieri è qualcosa da distogliere gli occhi, vi assicuro). Gestualità che non si vedono in film europei almeno dai tempi del cinema popolare italiano anni Cinquanta, descrizioni meticolose estenuanti e dialoghi iperdidascalici senza fine sul poco o il nulla, come se l’ellissi e la sintesi fossero sconosciute. Anche questo film di Nasrallah, come molto cinema egiziano di oggi, si riallaccia alla grande e nobile tradizione, però pressochè inesportata oltre il mondo che parla arabo, del melodramma del cinema cairota, della Hollywood sul Nilo, quella che fu la potenza cinematografica regionale e oggi cerca di riacquistare il suo primato perduto nell’area. C’è molto, c’è troppo in Dopo la battaglia, con plot e subplots che si incrociano e sovrappongono fino a confonderci, e che spesso servono a depistare lo spettatore dai nodi davvero centrali della narrazione. Eppure questo brutto, irrisolto film rischia di essere importante, perché ci racconta parecchio di quello che è l’Egitto nuovo del dopo rivoluzione, peché cerca di restituirci frammenti del caos, anche se poi ci si perde in quel caos. Mahmoud campava accompagnando con il suo cavallo i turisti alle Piramidi, e facendoli danzare, i suoi cavalli e le cavalle, davanti a quelle orde di occidentali famelici di simulacri cartolineschi. Poi il governo, il vecchio governo, ha alzato un muro (“peggio di quello che hanno fatto in Israele” si lamenta Mahmoud) per impedire a lui e agli altri di avicinarsi alle Piramidi. Fine del lavoro. Crisi. Così il povero, ingenuo Mahmoud fa l’errore della vita e, convinto e manipolato da loschi figuri, accetta di andare con il suo cavallo in piazza Tahrir insieme a tanti scagnozzi del regime, a cavallo anche loro o su cammelli, a calpestare e reprimere i rivoluzionari. Un suo video finisce su YouTube, e da quel momento è additato come un servo di Mubarak e diventa un reietto, un emarginato. I due figli a scuola vengono derisi, la moglie si ritrova isolata nella comunità. Si interessa a lui Rim, pubblicitaria in carriera, una che sta dall’altra parte dell’Egitto, quello metropolitano e laicizzante che vuole democrazia, giustizia, libertà all’occidentale. Rim perde la testa per quel sottoproletario ingenuo e puro di cuore ma sfigatissimo, avrà una notte d’amore con lui ma la cosa finirà con il complicare la sua vita e quella di Mahmoud. Il film procede per due lunghissime ore ed è denso, troppo, di cose che non si tengono insieme. Non si capisce mai che cosa Nasrallah abbia voluto girare. Se un turgido melò tra la borghese e il lumpen, se un film dichiaratamente politico sulla divisione in caste della società egiziane e sull’ambiguità dell’attuale processo di transizione, se un ritratto di un povero derelitto delle Piramidi destinato alla sconfita esistenziale e sociale. Un specie di nuovo Accattone pasoliniano. La storia che potrebbe esserci ma poi non si sviluppa davvero tra l’emancipata Rim e il povero ma bello Mahmoud, è un classico melodramma, egiziano e globale, sull’amore impedito dalle barriere sociali, con qua e là interessanti annotazioni e risvolti. Per dire: la moglie di Mahmoud è disposta a condividere il marito con la ricca Rim, a patto che che la cosa porti soldi in casa e aiuti la famiglia. Si parla anche sfacciatamente e più volte dei tanti maschi egiziani che si mettono o addirittura sposano una straniera per puri motivi alimentari, e spesso con la moglie in Egitto che sa, accetta ed è contenta. Siamo dalle parti di Fassbinder o, meglio, saremmo potuti essere, ma questi pur notevoli temi non si appropriano del film, non lo configurano, non lo trasformano in melodramma scatenato come sarebbe stato auspicabile e forse la sola via percorribile. Irrisolto, goffo soprattutto quando mima la vita affluente in stile occidentale, Dopo la battaglia apre però infinite finestre sull’Egitto di oggi, e anche quello dell’altro ieri. Un film che, se fosse sfrondato di almeno 30 minuti, potrebbe acquistare una sua forma e un suo senso. Così com’è non ce la fa a entrare nella massima serie e a togliersi di dosso l’aria di periferia. Ma non mandiamolo al macero, oltre le sue imperfezioni c’è parecchio di interessante. Da rivedere fuori dalle arene festivaliere.

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