Ali è un mezzo sbandato con figliolo a carico e tendenza a fare a pugni con la vita. Stéphanie lavora con le orche in un aquapark e un giorno ha un incidente gravissimo e perde le gambe. Due outcast, anche se per motivi diversi. Nascerà una storia, fatta di molto molto sesso e apparentemente zero sentimenti. O forse non è una storia. Jacques Audiard ci racconta tutto questo con il suo stile fisico, tattile, stando addosso ai suoi personaggi con la macchina da presa, non mollandoli mai. E senza nasconderci nulla della menomazione di Stéphanie. Gran film. Voto: 8.
De Rouille et d’Os (Di ruggine e d’osso), regia di Jacques Audiard. Con Marion Cotillard, Matthias Schoenaerts, Bouli Lanners. In concorso per la Palma d’oro.
Film magnifico, questo di Jacques Audiard presentato ieri in concorso, anche se non è compatto e strutturato come il suo precedente Un prophète, che proprio qui sfiorò la Palma d’oro andata poi a Il nastro bianco di Haneke. Non so se ce la farà quest’anno, il film è molto promozionato dai francesi, però ha avuto un’accoglienza mista, alquanto contrastata, ho l’impressione che in particolare i critici italiani non l’abbiano apprezzato. Io l’ho adorato, semplicemente. Sarà ora di dire, dopo Di ruggine e d’osso, che Audiard è, definitivamente, uno dei migliori autori europei della sua generazione (tra i 50 e i 60), ormai un maestro. Il suo è un cinema peculiare, inconfondibile, un cinema corporale, fisico, tattile, che rifugge naturalmente da ogni astrazione e cerebralità e assillo psicologistico, e si ancora, affonda, nell’evidenza delle cose, delle persone, dei fatti, di ciò che puoi vedere toccare mangiare annusare mordere. Anche ferire. Cinema materico, pure quando racconta di anime e di quella cosa che chiamiamo pigramente sentimenti. Il film ci mostra Ali e Stéphanie e quello che li unisce, ce lo mostra ma non ce lo definisce quel legame, non lo immette in nessuna delle categorie che siamo abituati a usare. Questa loro storia non è propriamente amore, forse è sesso puro, forse è solidarietà tra due che sono sfigati la loro parte, forse è un patto di mutuo soccorso, forse è solo la collisione casuale di due sconosciuti, forse è l’intersezione di un attimo di due traiettorie destinate a divaricarsi. Questa indecifrabilità è uno dei punti di forza del film, che può permettersi con grande libertà di raccontarci gesti e atti così come si configurano nel loro farsi senza doverli costringere in un tessuto narrativo finalizzato. Ali, che non è un maghrebino nonostante il nome, è uno di quei proletari dell’Occidente di oggi non così poveri da dover vivere ai margini ma perennemente sul filo dell’incertezza, della precarietà, anche dell’irregolarità sociale. Ha un figlioletto a carico, che si porta dal Nord della Francia verso una qualche parte del Sud dove abita la sorella che non vede da cinque anni. Un uomo con la vocazione di trovarsi spesso nel posto sbagliato con le persone sbagliate: gli capiterà anche da queste parti. Ali è, molto audiardianamente, un corpo, una creatura che si muove nello strato darwiniano della nostra civiltà, quello che trovi non appena gratti la superficie delle apparenze e della felicità-stabilità, una creatura nata e cresciuta per combattere e fare a pugni, con tutti e con la vita. Conosce, tirandola fuori da una rissa in un club, Stéphanie, che anche lei qualche ferita ce l’ha nell’anima, e che fa lo strano mestiere di addestratrice di orche, gli animali marini più pericolosi, in un aquapark per famiglie. Le segue, le sue orche, le sorveglia, le fa danzare nell’acqua, dirige i loro movimenti. Ma un maledetto giorno un’orca impazzisce e la trascina nell’acqua. Stéphanie perde le gambe. È qui che scatta la strana alleanza con Ali, il quale, nel suo torpido, forse anche opaco modo di vivere, non resta granchè impressionato da quell’amputazioni, o forse ha una saggezza e una bontà superiori, ed è lui a riportare a galla, a un minimo di vita decente, Stéphanie. Per tirare su un po’ di soldi entra nel giro dei combattimenti clandestini, lei lo segue prima sulla sedia a rotelle, poi con le sue protesi. Fanno l’amore. Ali non lo fa per pietà, ci gode, gli piace, non pare turbato da quei moncherini, li stringe, li accarezza: “Io sono operativo” dice di sé, intendendo che lui è una macchina per fare l’amore, pura performance fisica che può prescindere da ogni cosa. Stéphanie accetta, quando vuole fare l’amore con lui (ma sarebbe il caso di dire scopare) gli manda l’sms Opér, e lui capisce. Seguiranno complicazioni, per lei e soprattutto per lui. Ma quella loro storia resiste, non si sa come, non si sa perché. Man mano Stéphanie ritroverà un barlume di vita (si tatua i moncherini, mette i tacchi alle protesi), e Ali forse troverà se non una stabilità almeno una vita meno volatile e rischiosa. Forse. La storia è questa, non c’è altro, eppure è moltissimo. L’intensità emotiva è volutament bassa, ma questo film trova i varchi giusti per entrarti dentro e turbarti più di un melodramma fiammeggiante. Marion Cotillard è Stéphanie, e anche se ogni tanto esagera in espressioni corrucciate sa rendere il suo personaggio una persona da amare. Ma la vera sorpresa è Mathias Schoenaerts, che con i suoi muscoli e anche l’inespressività lavora di corpo e scolpisce il suo Ali in modo sorprendentemente naturale. Uno dei miei film preferiti di Cannes fino a oggi.
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