Festival di Cannes. Recensione: REALITY di Matteo Garrone è una gran delusione

Il film che smonta e smaschera i meccanismi perversi del reality show non è questo, ma The Hunger Games. Matteo Garrone mette in scena invece il vetusto teorema ideologico-politico secondo cui la cattiva televisione rovina il popolo e i puri di cuore. Il pescivendolo napoletano Luciano supera il casting del Grande Fratello, ma non ce la fa a entrare nella Casa. Da lì incomincia il suo delirio. Garrone gira alla grandissima e fellineggia, mettendo a segno qualche sequenza sensazionale. Ma la storia è risibile e non va mai oltre la piatta illustrazione dell’enunciato ideologico di partenza. Ritmi allentati, il risultato è una noia mortale. Fallimento di lusso, ma fallimento. Platea qui a Cannes divisa tra fischi (molti) e applausi (molti). Voto: 4 e mezzo.
Reality, regia di Matteo Garrone. Con Claudia Gerini, Aniello Arena, Loredana Simioli, Nando Paone, Raffele Ferrante. In concorso per la Palma d’oro.

La critica alla cattiva televisione genera cattivi film. Purtroppo questo Reality di Matteo Garrone mette in scena con fastidiosissima correttezza politica il vetusto teorema ideologico, e perfino teologico, secondo cui la televisione, soprattutto nella sua declinazione-degenerazione del reality show, rovina il popolo, i puri di cuore, lava i cervelli e li fa sballare. Questo è il centro del film, ed è un centro pesante, che impiomba Reality fino all’ultima scena: la quale giunge purtroppo dopo due interminabili ore (ma possibile che a un festival non si possa più vedere un film dell’aurea lunghezza di novanta minuti?). Garrone resta anche stavolta nella sua adorata Campania, quella che ha ritratto in L’imbalsamatore e in Gomorra, e che stavolta è la Napoli dei vecchi quartieri spagnoli, la Napoli popolare e sottoproletaria rappresentata in infiniti film, raccontata in infiniti racconti, una comunità che ha quasi le stigmate di un sistema tribale a parte, con le sue regole, i codici, i linguaggi. Un’umanità rappresentata anche in questo film secondo i modelli e anche i cliché, diciamolo, consegnatici dalle commedie di Eduardo e Peppino, dagli irresistibili film di Totò e giù giù, purtroppo anche da Così parlò Bellavista di Luciano De Crescenzo (libro e film). Su questa Napoli plana il Grande Fratello televisivo. Nella prima, bellissima e migliore sequenza – uno splendore che lascia sperare in un risultato alto invece poi disatteso – a una festa di matrimonio con carrozze e ori e livree e costumi settecenteschi (a rievocare l’età dell’oro della Napoli borbonica) arriva come ospite pagato un mitologico vincitore del Grande Fratello, adorato e salutato dalla folla degli invitati come un idolo dei nuovi tempi, della nuova realtà-delirio plasmata dagli onnipervasivi media. Tra di loro c’è il pescivendolo Luciano con famiglia, e saranno i tre pargoli a spingerlo a presentarsi al casting del GF di lì a qualche giorno a Napoli. Luciano non ci crede, ma supera il provino e viene convocata a Roma, dove entra nella lista d’attesa per la Casa. Il programma parte, però lui non viene chiamato, e da lì incomincia la sua ossessione. Ormai entrato nella parte dell’eroe da reality pur senza esserlo diventato, non riesce più a rinculare verso la normalità della vita precedente, resta sospeso in uno stato di allucinazione, sprofonda progressivamente nella paranoia vedendo spie e nemici dappertutto che sabotano il suo sogno. Ora, l’evoluzione-involuzione del personaggio è approssimativa e rozzamente messa a punto in fase di sceneggiatura, prevedibile, non andando mai oltre l’enunciato di partenza, che è quello – ultraideologico – dell’impatto devastante della potenza televisiva sulle anime semplici. Non c’è critica vera al Grande Fratello, non se ne svelano i perversi meccanismi, tanto che viene pure il maligno sospetto che chi ha scritto il film non abbia mai davvero visto un reality show in vita sua e ne abbia solo parlato e sentito sparlare nei salottini romani bo-bo (bohémien bourgeois). Se c’è un film che colpisce al cuore i reality e stigmatizza quello che sono diventati nella mente globale, quello è The Hunger Games, altro che questo di Garrone. Si dirà: ma in Reality il reality è solo pretesto per raccontarci un’ossessione, ho addirittura sentito qualcuno parlare di parabola cristiana sul peccato, la colpa e la redenzione, e c’è che ha scritto di un Luciano/Pinocchio illuso dai soliti Gatto e Volpe sull’esistenza del Paese dei Balocchi. Mah. Io sto schiscio sul primo livello del film, su quello che ci mostra e ci racconta, e stando a quel che ho visto resto dell’idea che sia un film mal riuscito – perché di insostenibile pesantezza ideologica – sulla televisione e sul suo impatto sul popolo (sì, ritiriamo fuori questa parola, perdio). Oltretutto non c’è una vera narrazione, Reality illustra piattamente il suo enunciato di partenza e non riesca mai a sorprenderci, il ritmo è così allentato che si rischia di abbioccarsi e di scappare dalla sala. Certo, resta la mano registica di Matteo Garrone. Qua l’applauso ci vuole. Garrone conferma di avere uno stile forte e riconoscibile, sospeso tra realismo e deformazione grottesca e visionarietà, e qui fellineggia senza freni, mostrando di essere in certi momenti all’altezza del maestro. La scena iniziale del matrimonio, appunto, ma anche quella finale, con la capacità di tasfigurare il mondo della televsione in un incubo, in anticamera dell’inferno-paradiso, come Fellini aveva già fatto in Ginger e Fred. Ma sono prove di genio registico applicate a una storia che non c’è e non va da nessuna parte.

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