Festival di Cannes/ Recensione. PARADISO: AMORE: turiste sessuali in Kenya per un quasi-capolavoro

Teresa è goffa, sovrappeso, segnata da una vita di media non-felicità. Quando dalla sua Austria se ne va in vacanza in Kenya scoprirà quanto sia facile comprarsi un giovane ragazzo africano da portarsi a letto. Paradiso: Amore non ci nasconde niente di questo scambio di corpi e denaro, non moraleggia, ci descrive minuziosamente le strategie dei ragazzi e quelle delle Frauen. Scene di crudezza e crudeltà necessarie. Film importante, davvero. Voto: 7 e mezzo.

Teresa: un nudo alla Lucian Freud

Paradies: Liebe (Paradiso: Amore), regia di Ulrich Seidl. Con Margarethe Tiesel, Peter Kazungu, Inga Maux. Film in concorso per la Palma d’oro.
Insieme a quello di Jacques Audiard, di gran lunga il miglior film tra quelli del concorso visti finora, naturale candidato alla Palma d’oro se non fosse così oltraggioso, disturbante, radicale, anche (giustamente) imbarazzante e allarmante, uno di quei film che le giurie non amano mai troppo e dunque destinato a uno dei premi che un tempo si dicevano di consolazione. Ma stiamo a vedere, tutto può accadere. Il regista Ulrich Seidl appartiene a quella scuola austriaca (letteraria e cinematografica) dell’osservazione impassibile del lato più lercio dell’umanità, di quei momenti e comportamenti in cui l’animale uomo si mostra senza veli e sovrastrutture culturali come pura pulsazione biologica, istinto crudo e primario. Lo stile è, quasi sempre, quello della asettica registrazione fenomenologica, presunta oggettiva, non inquinata (apparentemente) da pregiudizi e giudizi. Avalutativa. Seidl già in Canicola aveva dimostrato di essersi assai bene inserito in questa Neue Sachligkeit del cinema austriaco, ma qui si supera e ci consegna l’opera manifesto di quel cinema e del proprio cinema, l’opera perfetta. Si incomincia con Teresa, assistente in un istituto per disabili, che porta i suoi ragazzi agli autoscontri, e quella facce, quei corpi rattrappiti sulla pista-giocattolo e ipercolorata non li dimenticheremo più. Ha cinquant’anni e qualcosa, è assai in sovrappeso, è goffa e sgraziata, ha una figlia adolescente insopportabile e obesa, ha qualche amica. Di uomini non se ne vedono. Decide di partire per una vacanza in Kenya, in uno di quei villaggi lager dove gli europei vivono in un paradiso artificialissimo separato (tramite barriere, checkpoint, guardie armate) dal mondo intorno. Tutto è in vendita, tutto si può acquistare in dollari e euro, anche i corpi dei ragazzi kenyoti che sulla spiaggia, al di là della barriera, si mettono in mostra per le Mamas, come loro chiamano quelle signore venute soprattutto da Germania e Austria, grasse e bionde, e pronte a pagare per una e più scopate esotiche. Teresa non conosce quel traffico, non ancora. Imparerà. Respinge il primo boy che la porta a letto, lo trova troppo brutale, o forse è lei che non è ancora pronta. Ma quando Munga, almeno trent’anni meno di Teresa e un corpo levigato e perfetto, incomincia a corteggiarla, le assicura di non aver mai fatto prima l’amore con una europea, la fa sentire irresistibile e desiderata, cede. Sa che quanto lui le racconta è falso, ma cede. Gli insegnerà non a fare l’amore, che lui conosce molto bene, da professionista del sesso qual è, ma come lei vuole che si faccia l’amore. Gli insegna ad accarezzarle i seni, non a palparli bruscamente, a baciarla dolcemente. Si mettono insieme, girano mano nella mano, giocano agli innamorati. Ma poi arriva inesorabile il conto da pagare. Munga tira fuori storie di parenti malati e bisognosi di soldi, e Teresa mette mano al portafogli, una, due, tre volte, ma non basta mai, le richieste sono sempre più pressanti. Mollerà l’esoso Munga, ma lei ha ormai imparato come si fa, e forse non ne può più fare a meno. Avrà altri ragazzi kenyoti, uno lei lo respingerà brutalmente perché non all’altezza dopo avergli inutilmente insegnato i rudimenti sessuali. Nulla ci viene taciuto in questo racconto di una tardiva formazione-esplosione erotica in terra d’Africa. Seidl costruisce la sua narrazione come una parabola esemplare e didattica, perfino brechtiana. Ogni passaggio, ogni dialogo, ogni scambio di battute attengono a Teresa, ma nello stesso tempo anche a tutte le Sugar Mamas come lei. Lo sguardo è freddo e non partecipe, però mai ostile. Il regista non disprezza la sua protagonista, sa anzi rendercela umana, molto, troppo umana, riuscendo nella quasi impossibile impresa di narrarne la laidezza senza imbarazzarci. Il sesso è mostrato in piena luce, perché è quello l’oggetto del discorso, e non lo si può e deve eludere. I corpi di lei e dei ragazzi vengono esibiti ed esplorati dalla macchina da presa in ogni piega e anfratto, il corpo flaccido e maturo di Teresa offerto in ritratti che ricordano Lucian Freud, e quando lei è avvinta a Munga c’è qualcosa di stranamente laido e affascinante in quel compenetrarsi. Non c’è moralismo né particolare indignazione in Seidl. I riti volgari e turpi del turismo occidentale decerebrato ci vengono mostrati senza pietà, ma non si fanno prediche facili e a buon mercato sul turismo sessuale, non si fa passare la solita visione terzomondista ultrapolitically correct secondo cui è sempre l’Occidente colpevole a sfruttare sessualmente il corpo dei popoli svantaggiati. In Paradiso: Amore le Frauen venute da Vienna, Monaco e Berlino sono spaventose, abiette, ma i ragazzi africani che si vendono a loro non sono innocenti, anzi sono molto consapevoli di quello che fanno, e molto abili nelle loro strategie di mercato. Fingono il corteggiamento, perché sanno che alle donne il brutale mercanteggiamento non piace, perché sanno che quelle europee adorano essere ingannate con una recita, una finzione. E loro, da professionisti, quello fanno. Poi arriva il momento dei soldi. Sfruttamento? Scambio alla pari piuttosto, piaccia o meno. Signori, anche i soldi che passano dalle mani delle Mamas ai ragazzi kenyoti sono soldi dell’Occidente che finiscono in Africa. Pagamenti cash in cambio di prodotti e servizi. Punto. Resta solo da vedere se il prezzo è equo e il servizio adeguato, come in ogni commercio. Quello che impedisce a questo pur straordinario film di elevarsi a opera assoluta è la sua eccessiva programmaticità, il suo intento dimostrativo, una certa insistita ricerca dell’estasi della turpitudine. La prima scena degli autoscontri Seidl ce la poteva evitare, così come l’ultima, davvero terribile, della quattro assatanate – Teresa più le tre amiche ancora più golose di lei di carne africana – che si portano in camera lo spogliarellista kenyota poco più che adolescente, gli legano un nastro rosso al pene, fanno a gara a chi glielo fa rizzare più duro. Scandalizzerà, questa scena. Se ne parlerà molto. Non sono un moralista, però Seidl ce la poteva risparmiare, tanto ci aveva già detto e mostrato tutto benissimo. Ci attendono altri due suoi film che andranno a comporre insieme a questo Amore la trilogia Paradiso. Altre due donne alle prese con l’Africa. In Paradiso: Fede vedremo una missionaria cattolica, in Paradiso: Speranza un’operatrice sociale impegnata nel campo delle adozioni. Però Seidl, astutamente, ha incominciato con la turista sessuale, mica con la missionaria.

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