Festival di Cannes/ Recensione. DUPA DEALURI (OLTRE LE COLLINE): che gran delusione il rumeno Mungiu (già Palma d’oro)

Con 4 mesi, 3 settimane e due giorni aveva vinto qui a Cannes, lanciato il nuovo cinema rumeno e stabilito un modello di riferimento per il neo-neorealismo degli anni Duemila. L’attesa per questo nuovo film di Cristian Mungiu era enorme, e invece gran delusione. Una ragazza ospite in un convento di monache ortodosse cade preda dell’infelicità e della malattia. La prenderanno per un’indemoniata, con conseguenze fatali. Un film che polemizza fuori tempo massimo contro il fanatismo e la superstizione, cose che da noi si facevano nei primi anni Sessanta. Oltretutto di interminabile lunghezza ed estenuante lentezza.
Dupa Dealuri (Oltre le colline)
, regia di Cristian Mungiu. Con Cosmina Stratan,
Cristina Flutur, Valeriu Andriuta, Dana Tapalaga. In concorso per la Palma d’oro. Voto: 5.
Due ore e quaranta (troppi troppi troppi, maledizione) per raccontarci una fosca storia di una ragazza infelice, forse malata, presa per un’indemoniata da una comunità di monache ortodosse e dal loro pope-guida. Cristian Mungiu con l’epocale 4 mesi, 3 settimane e due giorni aveva vinto qui la Palma d’oro nel 2007 e sconvolto il mondo, facendo scoprire a tutti il nuovo cinema rumeno e consegnandoci un film seminale che con il suo realismo implacabile avrebbe infuenzato molto cinema successivo. Dunque ci si aspettava parecchio da questo suo nuovo film e, invece, delusione enorme. Oltre le colline non riece neppure alla lontana ad avere lo stesso impatto di quel precedente, è solo un estenuante, sfuocato, tardivo film-manifesto arrivato fuori tempo massimo sullo scontro (presunto) tra religiosità tradizionale intrisa di fanatismo e illuministica laica modernità, una coppia di opposti che da noi si portava molto tra anni Cinquanta e Settanta, caduta poi in disuso, anche per le progressive crepe e ombre via via mostrate dalla luminosa modernità. In questa narrazione, ispirata a un romanzo non fictionalizzato a sua volta ispirato a un fatto di cronaca accaduto in un convento moldavo, si racconta di una povera ragazza sofferente presa per un’ossessa e sottoposta a esorcismo. Cose che da noi si raccontavano, magari con più rozzezza, nei primissimi anni Sessanta, vedi il film (ma qualcuno se lo ricorderà?) Il demonio di Brunello Rondi, poi certo cinema di genere come Non si sevizia un paperino di Lucio Fulci. Cosa mai ci avrà voluto dire Cristian Mungiu con questo suo Dupa Dealuri? Che di fronte a certe indecifrabili malattie del corpo e dell’anima, o di malattie dell’anima che diventano malattie del corpo o viceversa, dobbiamo stare dalla parte della scienza ed esecrare le pratiche magiche? Perché, oltre agli psicofarmaci e alle costosissime psicoterapie di vario tipo spesso inefficaci, la modernità cos’avrebbe trovato di meglio e più risolutivo di un esorcismo? Che non è, in fondo, una forma più semplice, primitiva ma anche assai più veloce e infinitamente meno costosa di psicoterapia? Non sto predicando il ritorno alle pratiche magiche, ci mancherebbe, provo orrore per la cialtronaggine predicatorio-neoesoterica, neopagana, neomistica, noanimistica, neotutto dei vari Coelho e Alejandro Jodorowsky, però mi urtano le prediche spocchiose di chi, avendo tutt’al più a disposizione qualche psicofarmaco inebetente, ha la pretesa di spiegarci come si risolvono i mali del corpo-anima e di sputare sul sacro. Oltre le colline rischia questa banalità di pensiero, anche se Mungiu ha il talento e la sensibilità necessaria per non firmare un esplicito pamphlet antireligioso; lo sfiora, il tranello, ma non ci cade dentro. La storia: Alina torna dalla Germania per ritrovare Voichita, la ragazza cresciuta con lei in orfanotrofio e che lei ha amato, riamata. Progetta di riprendere quella relazione, di vivere con Voichita, di pianificare qualcosa insieme. Ma Voichita non è più quella di allora, è conversa in un piccolo convento ortodosso in un’area rurale, una comunità retta da un severo pope già in odore di santità presso la popolazione locale. Alina viene ospitata nella stessa cella di Voichita, ma quello non è il suo mondo, e Voichita non vuole, non può riprendere lo stesso rapporto di prima con lei. L’abisso di infelicità in cui precipita Alina si trasforma man mano in disadattamento: si mette contro la vita e le regole del convento, è la diversa, l’altro, l’estraneo che rischia di far saltare gli equilibri. Poi arrivano le crisi epiletiche, forse isteriche. All’ospedale non la trattengono, il problema ricade di nuovo sulle suore. Si fa strada l’idea che si posseduta dal maligno, che la si debba liberare da quella presenza. In un crescendo parossistico di crisi di Alina e di reazioni disperate da parte delle suore e del pope, si arriva all’esorcismo finale, e Alina ci resta. Mungiu non è così rozzo e ottuso da filmare e firmare una polemica veterolaicista contro la superstizione, ci mostra suore e sacerdoti anche sinceramente preoccupati per la sorte di Alina. Ma, inesorabilmente, la narrazione porta a quel risultato nella mente dello spettatore (durante la proiezione ci sono stati molti applausi nella scena in cui Alina attacca suore e pope). Il piccolo e già grande maestro del nuovo cinema rumeno gira ancora magnificamente, sa restituirci in ogni inquadratura il respiro e ogni minimo fremito dei suoi personaggi, ha il talento speciale di catturare lo sgradevole e l’inquietante, scrive dialoghi di assoluta naturalezza. Ma il film è impiombato dalla tesi incorporata nella sua storia fin dall’inizio, e non ripete l’exploit di 4 mesi, 3 settimane e due giorni.
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