Fa irruzione a Cannes un film delirante, ultravisionario, che si rifà alla tradizione del cinema anarco-surrealista e che spiazzerà il pubblico. Immagini e sequenze legate solo dal linguaggio dell’inconscio, dei sogni, degli incubi, del desiderio. Un esile filo conduttore ci porta tra i cunicoli e i tetti di una Parigi mai vista così e mai così bella. Film da fischi o da ovazioni, che dividerà: Cannes non è che l’inizio. Film che alterna sequenze sublimi e assolute a parecchia paccottiglia, perfino spazzatura. Ma non ce n’è, prendere o lasciare. Voto: 7.
Holy Motors, regia di Leos Carax. Con Denis Lavant, Eva Mendes, Kylie Minogue, Edith Scob, Michel Piccoli. In Concorso per la Palma d’oro.
“Il mio progetto è di diventare pazzo”, dice un personaggio (uno dei tanti nei quali si incarna il chiamiamolo protagonista Monsieur Oscar) di questo film. Non so se sia anche il progetto esistenzial-professionale di Leos Carax, ma Holy Motors lo lascerebbe fortissimamente pensare. Carax, nome leggendario e pure maudit del cinema francese delle ultime decadi, è l’autore di un film smisurato come Les Amants du Pont Neuf, smisurato per ambizioni, durata del tournage, soldi investiti e buttati, e anche per fallimento. Poi, dopo un altro lungometraggio che non riuscì a risollevarne le sorti, Pola X, praticamente sparito dai nostro schermi. Ci ritorna (e viene riaccolto a Cannes) con questo assoluto delirio, irraccontabile, forse anche invedibile, invendibile, inguardabile. Di quei film che dividono, o stai di qua o stai di là. Io da ieri sera cerco di capire se mi sia piaciuto o se invece mi abbia fatto senso. La risposta è: le due cose. Orrendo e sublime, ignobile e bellissimo: Holy Motors è così. Di una autorialità tanto estrema e narcisa, compiaciuta e autoreferenziale che vorresti prendere a sberle il regista. Però è anche la radicale e anarchica libertà di questo cinema, il suo rispondere solo all’ispirazione, alle voglie, alle bizze del suo regista, il suo fregarsene di ogni regola di mercato, a rendercelo parecchio interessante. Come tutto ciò che si pone al di fuori e contro, ha un che di furiosamente, anche infantilmente eroico che seduce. Penso che Leos Carax abbia provato a girare qualcosa che si ponesse ai bordi tra cinema da sala (da tv, da home video) e videoart così come si è configurata negli ultimi anni, spesso come vera e proprio narrazione. Insomma, se Holy Motors lo avessimo visto alla Biennale di Venezia o a Documenta non ci avrebbe colpito così intensamente come qui a Cannes e nessuno si sarebbe meravigliato (scandalizzato no, ormai non si scandalizza più nessuno). Credo anche che Carax abbia voluto recuperare la tradizione del cinema dadaista, surrealista, post surrealista. A un certo punto appare la scritta Entr’Acte, e non possiamo non prenderla come un’allusione all’omonimo film-manifesto del cinema dadaista firmato René Clair. C’è parecchio anche del Jean Cocteau di Le sang d’un poète e del Testamento di Orfeo (la scena della cava con Eva Mendes dea-modella). E poi: il Buñuel-Dali di L’Age d’or, Occhi senza volto di Georges Franju e giù giù fino al cinema di Alejandro Jodorowski e Francisco Arrabal. Una vena folle-anarcoide che si è persa nel cinema da moltissimi anni, tranne forse qualcosa di Jeunet (i deliri alla Terry Gilliam sono un’altra cosa) e che adesso riaffiora in questo Carax. Certo bisogna risettare il nostro cervello e rimettere a punto i nostri sensori e recettori per vedersi Holy Motors. Di che racconta? Mah. C’è un signor Oscar che la mattina se ne esce di casa e sale sulla limousine guidata da una signora matura e assai chic di nome Cécile che è un po’ chauffeuse, un po’ segretaria, un po’ badante-mamma. Monsieur ha un serie di appuntamenti, che scopriamo essere vari ruoli, vari personaggi in cui di volta in volta si cala, i più folli, disparati e disperati (si incomincia con lui truccato da vecchia mendicante est-europea). Questo è l’unico vago filo narrativo, il resto sono visioni, immagini, che si susseguono e incatenano secondo una logica-non logica inconscia, desiderante. Annullare la ragione, il conscio, perché il film si faccia da sè, in una sorta di riedizione dei dettami surrealisti. Qualcosa funziona in questo flusso, qualcosa no. Alcune parti sono folgoranti e di straordinaria intensità (anche emotiva), altre inguardabili. Si comincia con il protagonista che lacera una parete e si ritrova sulla balconata di un teatro-cinema. Poi, qui e là, su e giù per Parigi, di giorno, di notte, nei tunnel, nelle fogne, sui tetti, nelle chiese, tra palazzi cadenti e meravigliosi. Ho detestato quasi tutta la prima parte (ad esempio l’irruzione sul set fotografico, il rapimento della modella e la discesa con lei nelle cave, mentre la danza-accoppiamento dei due cyborg luminosi non è niente male, molto anni Ottanta, un ritorno all’estetica di certo cinema postmoderno), ho incominciato a voler bene al film con la sequenza, meravigliosa, della marcia delle fisarmoniche in chiesa, ho perso definitivamente la testa con la lunga scena all’abbandonato grande magazzino Samaritaine in cui il protagonista, o meglio uno dei suoi avatar, passeggia con una commovente Kylie Minogue abbigliata come Jean Seberg in All’ultimo respiro e un po’ Michèle Morgan in Quasi des Brumes che canta, straziante, una bellissima canzone (parole di Carax), e sembra di stare in un musical di Demy. Magico momento, davvero. L’ultima scena è un clin-d’oeil perfino ai Pixar Movies, e a qual punto, esausti ma non insoddisfatti, si applaude. Uno di quei film che nei festival son necessari come il pane, perché spezzano la monotonia, introducono qualche utile carica di tritolo nel cinema mainstream, dividono e appassionano. Alla prima proiezione-stampa ci sono state ovazioni, alla seconda (alla quale c’ero io) applausi pochi e tiepidi. Non mi sentirei di definire un capolavoro Holy Motors, come qualche cinéphile radicale sicuramente farà, non lo saluterei nemmeno come un’anticipazione geniale del cinema futuro (quello che fu l’anno scorso ad esempio The Tree of Life). Troppo discontinuo. A fronte di immagini e sequenze memorabile c’è parecchia paccottiglia, anche spazzatura. Però avercene di film così, ai festival e fuori. Viva Carax e la sua necessaria follia.
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