Attesissimo, considerato fin dalla prima ora uno dei favoriti per la Palma d’oro. Invece Cosmopolis di David Cronenberg non è piaciuto, noia, sbadigli, pochi applausi di cortesia e rispetto. Parlatissimo, filosofeggiante, estenuante. Un giovane tycoon della finanza, che vince e perde tutto in un giorno, attraversa una città protetto dalla sua limousine. Strani incontri e anche strani amori, intorno attentati, ribellioni, minacce, tensioni. Film sballato e imperfetto, ma il tocco dell’autore si sente, eccome. Nonostante tutto, il gran canadese riesce a consegnarci come pochi un ritratto glaciale e disturbante del vivere d’oggi. E Pattinson? Stavolta se la cava. Voto: 6.
Cosmopolis, regia di David Cronenberg. Con Robert Pattinson, Mathieu Amalric, Paul Giamatti, Juliette Binoche, Samantha Morton. In Concorso per la Palma d’oro.
Delusione e molti sbadigli alla proiezione stamattina di Cosmopolis, attesissimo, uno dei film anticipatamente dati in pole position per la Palma. Difficile a questo punto che se la porti a casa. Cosmopolis è una di quelle opere ostiche e volutamente non accattivanti, non ruffiane, che non fanno concessioni, anche molto ombelicali, molto autoreferenziale. Ma perché no? David Cronenberg non ha più bisogno di dimostrare niente a nessuno e faccia pure quello che vuole, perché lui può. Qui, dopo una serie di film abbastanza mainstream in cui aveva deciso di scendere a patti assai intelligentemente con il mercato e con le regole della narrazione neopopolare (History of Violence, A Dangerous Method ecc.), torna al cronenberghismo duro e puro, cioè al se stesso più disturbante. Tratto da Don De Lillo (ma non so quanto sia rimasto del romanzo, non avendolo letto), è un apologo fin troppo dimostrativo sul caos del nostro mondo globalizzato dominato dall’instabilità-volubilità-volatilità dei mercati e dalla rapacità, che trova nella finanza il suo strumento, la sua leva massima. Protagonista è un fighetto ventottenne che ha già accumulato con le sue speculazioni e il suo intuito una smisurata fortuna, e che vediamo in una qualsiasi giornata mentre, su una limousine che come un’astronave traversa una metropoli, vuole raggiungere il suo barbiere di fiducia. Ma è un giorno complicato a Cosmopolis, città che riassume molte megalopoli d’occidente, perché lo yuan ha deciso di impazzire creando parecchia turbativa sui mercati e all’impero del nostro Eric Pecker – così si chiama il tycoon. Intorno, fuori dalla limo-spaceship, succedono cose strane, inquietanti, ingorghi da andare fuori di testa, fuochi di ribellione. In diretta tv viene sgozzato un esponente del Fondo monetario, la visita del Presidente crea un clima militarizzato da stato d’assedio. Il metabolismo della città cortocircuita, si blocca, collassa. La limo rimane intrappolata. Il nostro telefona, soprattutto parla e parla e straparla, con lo chauffeur, con altri passeggeri che ogni tanto vengono imbarcati, o con altri personaggi durante qualche incursione a casa o in ufficio. La moglie. Un’art dealer con cui Eric fa l’amore mentre parlano di Rothko (è Juliette Binoche). Una massaggiatrice-prostituta. Ci sarà altro sesso, e sempre una violenza sottotraccia pronta ad esplodere materializzata da armi che ogni tanto appaiono e scompaiono. Dialoghi altissimi, iper letterari (scritti dallo stesso Cronenberg), con dichiarate ambizioni filosofeggianti, si parla di denaro, crisi finanziaria, avidità, sesso e quant’altro. Difficile da reggere, francamente, anche per il tono non proprio modesto che trasuda da ogni inquadratura. Estenuante. Ci sarà un omicidio gratuito, il nostro diventerà il bersaglio di un killer, ma anche lì lo scontro diventerà verbale, e altri fiumi di parole e sentenze e aforismi scorreranno. Nonostante gli insopportabli difettacci, il film – rigoroso, impeccabilmente girato, stilizzato – riesce lo stesso molto bene a comunicarci la glacialità, l’impersonalità di un universo dominato dall’avidità e dall’astratta potenza di un denaro sempre più immateriale e invisibile. Sarebbe il caso di tornare e parlare di alienazione, reificazione, vecchie categorie hegeliane-marxiane rilucidate dalla scuola di Francoforte. Ma a che pro? Cronenberg è un vecchio signore che avendo attraversato le decadi furenti dei Sixties e Seventies sa ancora imbastire una critica feroce a quello che si chiamava sistema, e riesce a farlo credibilmente. Quella sua Cosmopolis sul punto di collassare con tutti i suoi abitanti dentro – una Sodoma & Gomorra, una Babele con il collante sociale che non tiene più e lascia andare alla deriva i singoli -, a me ha richiamato certo Godard tra anni Sessanta e Settanta, quello di La cinese e soprattutto di Weekend, cui certe sequenze sembrano ispirarsi (e c’è pure qualcosa di Dillinger è morto di Marco Ferreri, se è per questo). Cronenberg, come Godard, sembra credere che ancora nel cinema la parola possa incendiare la prateria e creare un sussulto di coscienza. Difficile essere d’accordo, ma facciamo finta almeno, cosa ci costa in fondo? Onore comunque a un autore fedelissimo a se stesso che, nonostante l’abbondante noia che ci ammanisce, sa anche bene restituirci il senso di gelo e vuoto in cui tutti oggi ci ritroviamo a vorticare. E Robert Pattinson? Stavolta, per la prima volta fuori da Twilight se la cava bene. Cronenberg l’ha ben diretto, anche perché ha configurato il suo protagonista glaciale, impassibile, al limite del non-umano, robotico e già un po’ androide, su misura per lui e della sua inespressività.
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