Francia profonda, anni Venti. Una donna soffocata dai tradizionalismi borghesi si ribella con un atto insensato tentando di avvelenare il marito. Tratto da un classico di François Mauriac, Thérèse Desqueyroux è il film testamento di Claude Miller, scomparso poco dopo il termine delle riprese. Cannes lo ha presentato a chiusura di festival come omaggio a un autore che anche qui ha confermato la sua sensibilità per i personaggi femminili e la capacità di rievocare un’epoca. Cinema di ottima confezione, apparentemente assai convenzionale e formalista, ma capace di qualche inaspettata increspatura, ambiguità, penombra. Voto: 6 e mezzo.
Thérèse Desqueyroux, regia di Claude Miller. Con Audrey Tautou, Gilles Lellouche, Anaïs Demouster, Catherine Arditi. Presentato fuori concorso.
Ha chiuso Cannes 65, questo TD, ed è stato anche un omaggio al regista francese Claude Miller, scomparso il 4 aprile scorso non molto dopo aver terminato le riprese. Un titolo che se a noi italiani dice poco, dice molto qui in Francia, giacché Thérèse Desqueyroux è un classico degli anni Venti considerato il miglior romanzo di François Mauriac e tra i migliori della narrativa francese della prima metà del Novecento. Qualcosa che appartiene al canone letterario di questo paese. Ma alla storia del cinema appartiene anche il film che già ne trasse nel 1962 Georges Franju, mitologico autore pre-Nouvelle Vague ma assai rispettato dai nouvellevaguisti del quale si continua a omaggiare il capolavoro Occhi senza volto. Franju per la sua versione del romanzo di Mauriac chiamò Emmanuele Riva: la stessa Riva che abbiamo ri-visto a questo festival 85enne non dimenticabile protagonista del film Palma d’oro Amour di Haneke (e se è per questo, nel film di Franju c’era anche quell’Edith Scob riapparsa nel visionario Holy Motors di Carax quale ironica, imperturbabile segretaria-chauffeuse. Ma il gioco dei rimandi, delle coincidenze e degli incroci continua: nell’ultima scena del film di Carax Edith Scob si mette una maschera uguale a quella che lei stessa indossava in Occhi senza volto). Dunque su Thérèse Desqueyroux di Claude Miller si addensano e condensano molte suggestioni, rimandi, clin d’oeils che ce lo rendono parecchio interessante, qualcosa da non trascurare e da visionare con attenzione. Anni dopo la Grande Guerra, Francia profonda e di campagna dalle parti di Bordeaux. Thérèse Larroque, giovane donna colta, con fremiti emancipatori, ottimamente educata e coltivata, di padre laico-radicale e si presume mangiapreti, va sposa a Bernard Desqueyroux, uomo più buono che cattivo rampollo-erede di una famiglia di proprietari terriere che ben rappresentano l’anima conservatrice del paese, chiusi a ogni innovazione, cattolici tradizionalisti e pure antisemiti (quando la giovane sorella di Bernard si innamorerà dell’israelita Jean Acevedo le sarà impedito di frequentarlo). Bernard, un bravo, perfetto Gilles Lellouche – il compare di scorribande di Jean Dujardin nell’interessante e sottovalutato Gli infedeli, per capirci -, adora i riti della caccia come ogni signore di campagna, le moderate bisbocce con gli amici e, immerso com’è nella convenzione, ama quella strana moglie, ma non riesce a capirla e farsi capire. Thérèse è una Bovary, però più consapevole delle proprie capacità e dell’impossibilità di esprimerle, e dunque più sofferente. Quando nasce la loro figlia la sua estraneità rispetto all’ambiente che la circonda si acuisce, ci viene suggerita anche una qualche forma di psicopatologia in lei, se non di follia. Finirà che, piombata in quella che lo psicologismo odierno chiama depressione, si rintanerà in se stessa ed esploderà in un atto apparentemente insensato, una sorta di automatismo preconscio: tenterà di avvelenare con l’arsenico il marito alterando delle ricette (Mauriac si ispirò a un fatto vero accaduto proprio da quelle parti qualche anno prima). Lo salveranno, Bernard, ma per Thérèse arriverà la punizione, e non sarà quella della giustizia ufficiale. Per evitare lo scandalo, salvare l’onore della famiglia e della figlia, il marito testimonierà a suo favore scagionandola, sicchè verrà dichiarato il non luogo a procedere. Thérèse è libera. Ma il tribunale di famiglia ha deciso. Dovrà da quel momento vivere separata dal marito e le sarà impedito di vedere e crescere la figlia. Una punizione implacabile e feroce. Ora, il film si configura come l’ennesimo racconto esemplare e perfino didascalico intorno a una donna troppo intelligente e troppo sensibile rispetto agli uomini e alle donne che la circondano, e inevitabilmente destinata alla collisione con il suo oppressivo ambiente sociale. Poco di nuovo, una storia mille volte narrata soprattutto nei decenni ultimi del Novecento con eroine di volta in volta diverse ma sempre opposte al dominio patriarcal-maschile, però il romanzo dovette avere a suo tempo un forte impatto sulla borghesia francese, e di quella forza d’urto il film conserva una qualche traccia, una qualche eco. A noi smaliziati spettatori di un’epoca che ha visto e vissuto ogni possibile rivoluzione femminile riesce difficile calarsi in quel mondo, in quel tempo così castale e maschiocentrico, ci riesce assai più facile considerare la vicenda di TD come un reperto d’epoca, interessante ma retrodatato. Claude Miller in questo suo ultimo lavoro dà prova del suo artigianato, di quella sapienza nella ricostruzione d’ambiente, di quella cultura nel tracciare contesti e contorni e personaggi che oggi si vanno perdendo. Mi ha ricordato, se non Visconti, certo Mauro Bolognini. Scenografie e costumi accurati, riti sociali grandi, piccoli e minimi riproposti con il gusto borghese di chi li ha conosciuti e anche un po’ vissuti. Si respira l’aria e pure l’odore di chiuso della vecchia Francia conservatrice perché chi ce la propone sa bene di cosa parla e cosa mette in scena. Un tempo film così venivano liquidati sprezzantemente (ancora oggi capita, se è per questo) come decorativi, formalisti, illustrativi, calligrafici – ne sa qualcosa il povero, sempre bistrattato James Ivory. L’accusa se la tirerà dietro di sicuro anche Thérèse Desqueyroux, invece questo non è (solo) formalismo, è capacità di ricreare comme il faut un tempo, un’era, una sensibilità o non-sensibilità. Imparino, certi giovinastri. Dietro a film come questi c’è cultura e saper vivere, non solo la vacuità della bella immagine che si appaga di se stessa. Miller si permette anche qua e là di lucidare gli ottoni e l’argenteria, di togliere la polvere, suggerendo con tocchi assai lievi e delle volte impercettibili elementi di contemporaneità, cercando di indirizzare il film verso approdi meno lontani da noi. L‘amicizia pre-matrimonio tra Thérèse e la giovane cognata ha vaghi risvolti lesbici; Thérèse non ha mai cedimenti romantici, è piuttosto un donna che cerca, per quanto può, di impadronirsi del suo destino e pilotarlo, il guaio è che non glielo lasciano fare (anche quando si sposa non lo fa per amore, ma per calcolo razionale, per poter unire la sua proprietà con quella confinante dei Desqueyroux). Audrey Tautou, che non è l’attrice più simpatica in circolazione, offre la sua glacialità, la sua impassibilità, la sua spigolosità al personaggio protagonista, conferendogli una cert’aria torva, accentuandone gli aspetti di durezza e quasi cancellando quelli sentimental-romantici. Una buona prova, che ricorda la sua precedente in Coco avant Chanel.
Thérèse Desqueyroux di François Mauriac è stato pubblicato in Italia da Adelphi
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