Recensione: IL DITTATORE. Sacha Baron Cohen delude, non diverte molto e non è poi così corrosivo

Il dittatore, regia di Larry Charles. Con Sacha Baron Cohen, Anna Faris, Ben Kingsley, John C. Reilly, Megan Fox.
Il film di Sacha Baron Cohen resta al di sotto delle aspettative, anche se non ci fa mancare qualche risata. La critica ai modi e ai deliri del potere assoluto non è così originale e devastante, riducendosi a un paio di gag non proprio geniali. Il guaio è che Baron Cohen a poco a poco si innamora del suo personaggio, se ne lascia irretire e finisce con il renderselo (e rendercelo) simpatico. Gioco alquanto rischioso e parecchio ambiguo (ma, paradossalmente, il film è interessante proprio in questo). Voto: 5 e mezzo.
Ci si aspettava molto da questo Il dittatore, visto il bersaglio grosso che stavolta Sacha Baron Cohen aveva scelto di colpire, anzi bombardare col suo devastante umorismo al tritolo, vale a dire i feroci, egolatri dittatori padri-padroni di una qualche infelice plaga nordafricana-mediorientale con smarginamenti e incursioni in aree simil-afghane e simil-pachistane. Ci si aspettavano mirabolanti pirotecnie politicamente scorrettissime che si facessero beffe di ogni cautela e riguardo e accomodamento e perfino appeasement nei confronti di certi deliri ed estremismi satrapeschi di matrice arabo-islamica. Già eravamo, più che pronti, rassegnati alle polemiche planetarie annunciate, alle accuse infuocate e indignate a Sacha Baron Cohen di razzismo e etnocentrismo e insensibilità verso le culture altre ecc. ecc. Invece niente o quasi, e il motivo è che questo film è alquanto annacquato, deboluccio, una robina molto al di sotto delle capacità corrosive e caustiche già mostrate in precedenza dall’autore-attore di Borat e Brüno. Una delusione, molto grande perché direttamente proporzionale alle alte aspettative. Questo Ammiraglio Generale Aladeen, dittatore dello stato per niente libero di Wadiya, è solo un cretinetti senza spessore travolto dal delirio di onnipotenza che si arroga il diritto di vita e di morte sui suoi poveri sudditi. La folta barba fa pensare perfino al Lider Maximo di Cuba, ma il resto – gli ori e i lussi del satrapesco palazzo, la statua con braccio alzato, le pettorute e gnocche pretoriane-guardie del corpo – allude chiarissimamente ai due dittatori arabi che hanno presidiato sogni e incubi dell’Occidente negli ultimi decenni, Saddam Hussein e Gheddafi. Benché Sacha Baron Cohen cerchi all’inizio del film di confondere un po’ le acque tirando in ballo il nordocoreano Kim Jong il, quelli sono i modelli di riferimento, non ce n’è. Tutto è però alquanto approssimativo – e non si capisce se per libertà creativa o per sciatteria e ignoranza – sicchè si parla di Aladeen despota di un paese nordafricano, poi però lo si colloca in un palazzone molto moghul-rajasthan-pakistan che nulla ha a che fare con architetture e stili e modi di quei paesi e nemmeno con il mondo arabo, essendo il Rajasthan sì islamico, ma arabo proprio no, proprio per niente. Insomma, un casino. L’impressione poi è che Sacha Baron Cohen sia arrivato molto tardi, fuori tempo massimo, essendo scomparsi durante la lavorazione del film, oltre al già defunto e deposto Saddam Hussein, pure Gheddafi e Kim Jong il, tanto che Il dittatore ci appare una sorta di ghignante e sinistra contro-commemorazione post-mortem. Si dirà: ma che c’entra?, Cohen se la prende con l’idealtipo del dittatore, la sua polemica è e resterà sempre attuale, al di là delle contingenze di storia e cronaca. Vero, però il suo Aladeen è così somaticamente saddam-husseinesco e gheddafiano da non riuscire a svincolarsi da quei due modelli e farsi modello generale e transtemporale. Ma il guaio vero è che Cohen appare svogliato, si libera con due o tre gag e battutacce della doverosa messa in burla e messa alla berlina di Aladeen. Sì, si ride quando lui alle finte Olimpiadi spara ai concorrenti per essere il vincitore unico, e si ride anche alla sua lite con il mad doctor sulla testata del missile nucleare a punta o bombata, ma non c’è molto altro. E in fondo sono solo barzelletucce, suvvia. Sacha Baron Cohen tira subito i remi in barca e non ci consegna una nuova, ipermoderna versione di Il grande dittatore chapliniano, cui chiaramente si rifà. Chaplin era andato molto più in là e più a fondo di lui, Sacha Baron Cohen, nonostante la sua esibita selvaggeria e trucibalda ironia e le tante maialate da fase oral-anale, invece non tira mai fuori davvero gli artigli e tuttosommato finisce col trattare con bonomia il suo criminale Aladeen. Tutt’al più si diverte e ci diverte attraversando e riproponendo assai citazionisticamente interi repertori cinematografici e letterari, modellando il suo dittatore sui molti despoti-satrapi-imperatori crudeli e pervertiti che il cinema ci ha mostrato, a partire dal debosciato Nerone di Quo vadis? interpretato e iconizzato da Peter Ustinov fino al Caligola di Tinto Brass. Anche lo schema del doppio – del sovrano o despota sostituito a palazzo da un suo sosia – cui SBC qui ricorre, è un archetipo sia letterario che cinematografico: Il grande dittatore, certo, ma anche Il prigioniero di Zenda e perfino La maschera di ferro. Aladeen è fiero della dittatura che ha instaurato, vuole difendere il suo paese e il mondo dal virus che considerea maligno della democrazia, e per difendere se stesso e Wadiya dalle critiche internazionali va a New York all’Onu. Ma il mellifluo e troppo astuto zio Tamir, suo bracciodestro-consigliere, ha un piano in testa, porre fine al regime di Aladeen per instaurare una democrazia di facciata e di comodo che gli consenta di consegnare alle grandi companies mondiali del petrolio i preziosi pozzi del paese, e di intascare da loro montagne di petrodollari. Perché Aladeen è sì un satrapo, ma anche un nazionalista che ha giurato di non vendere agli stranieri il suo petrolio. Il malfido bracciodestro (Ben Kingsley, ovvio) escogita allora un piano. A New York fa rapire Aladeen e lo sostituisce con un sosia stupidotto pronto a firmare all’Onu davanti al mondo una costituzione democratica del suo paese. Fine del regime, giubilo internazionale e la possibilità per il perfido bracciodestro di allungare le mani sulle ricchezze del paese. Ma Aladeen si salva e cercherà di sventare il complotto sostituendosi al suo sostituto. Ora, non si capisce perché Sacha Baron Cohen abbandoni quasi subito la sua messinscena di vizi e vezzi del dittatore per avventurarsi in questa commediaccia o farsaccia degli equivoci, tuttosommato prevedibile e assai debole, e che poco c’entra con le premesse del film e anzi le annacqua e intorbida. Vero, il nostro è molto, molto divertente quando sbeffeggia l’ultra political correctness del negozietto bio e eco-friendly di Brooklyn dove lavorano solo rifugiati politici da ogni parte del globo e tutto è equo e solidale, e la clientela brulica di radical non-chic e coppie lesbo con passeggino e pupo da fecondazione eterologa. Però la storia d’amore con Zoey, l’ultra radical e femminista responsabile del bio-spaccio, non ha un minimo di verosimiglianza. Consente sì a SBC di cortocircuitare gli opposti mondi del macho-maschilista-dominatore Aladeen e quello della comunità brooklyniana aperta a ogni diversità e biodiversità, con ovvii effetti comici, ma non sta proprio in piedi. Il limite strutturale del film, che paradossalmente però è anche il suo vero motivo di interesse, sta nel fatto che Sacha Baron Cohen a poco a poco si innamora del suo personaggio, non ce la fa a tenerlo a distanza ma anzi se ne fa travolgere e ingoiare. In una sorta di appeasement narrativo, di sindrome di Stoccolma, scende a patti con lui e se lo fa (e ce lo fa) diventare simpatico e accettabile. Il dittatore, che parte e si proclama film di denuncia contro il potere assoluto e i suoi danni, diventa man mano e inconsapevolmente complice del suo bersaglio. Se Chaplin in Il grande dittatore teneva rigorosamente separati bene e male e sapeva benissimo da che parte schierarsi e contro chi prendersela, Sacha Baron Cohen qui perde la bussola, si inabissa nell’ambiguità, finisce con il giustificare ciò che dice di voler condannare. Mostrandoci il suo Aladeen smarrito a New York senza più potere né denaro, e innamorato di una donna che è l’opposto degli oggetti sessuali che ha sempre prediletto, ce lo rende umano, molto, troppo, pericolosamente umano, depotenziando e vanificando ogni possibile critica alla sua crudeltà di despota. Il dittatore in fatto di ambiguità va anche parecchio in là, toccando e discutendo punti sensibili quali la categoria di democrazia. SBC, credo senza rendersene conto, finisce con il suggerirci, nella scena in cui zio Tamir svende Wadiya alle compagnie petrolifere, che la democrazia predicata dall’Occidente spesso è un inganno e che la sua esportazione in altre aree e culture nasconde in realtà inconfessati interesse economici (che era poi il cavallo di battaglia di molti oppositori dell’intervento dell’America di Bush in Irak). Tant’è che Baron Cohen rischia di tifare, e di farci rifare, per il suo dittatore che cerca disperatamente di riguadagnare il potere e il posto illegittimamente sottratti dal perfido zietto. Insomma, meglio una sana dittatura autocotona e nazionalista di una cattiva democrazia imposta dall’esterno? Baron Cohen si avventura su terreni troppo scivolosi e non ce la fa a tenersi in piedi. Che si lasci irretire e anche soggiogare dal suo tirannico personaggio lo si nota in altri momenti, vedi Aladeen che ricorre alle maniere forti per dare una regolata e sistemata al negozio bio, quasi a dirci che un po’ di prepotenza ogni tanto ci vuole, e che ogni tanto una sospensione della democrazia non può che far bene. Ancora: il finale ambiguissimo, con un Aladeen apparentemente convertito alla democrazia, sposato a Zoey ma in realtà ancora padre-padrone della sua Wadiya, sembra suggerirci che oggi la ricetta migliore è una democrazia corretta da qualche tocco di tirannide. Vado troppo lontano? Sto esagerando con la caccia ai sottotesti? Mah, temo di no. Questo film – lo ripeto: senza volerlo – parte come dileggio e messa in burla della brutalità di certi dittatori extra-occidentali e diventa una inquietante riflessione sulle insufficienze e l’attuale crisi della democrazia in Occidente. Sono anni ormai che alcuni teorici del pensiero politico, e soprattutto aluni teorici neo-elitaristi, si interrogano sulla democrazia come dittatura della maggioranza sulla minoranza, sulla democrazia come impossibilità e paralisi dei processi decisionali, sulla democrazia come ingovernabilità e poteri ostaggio degli istinti e delle irrazionalità del popolo votante. Frontiera assai rischiosa della riflessione politica, ma di assoluta attualità (vedi anche le polemiche sul governo tecnico di Monti come riproposizione di un governo degli ottimati non espresso dalla volontà popolare). Il dittatore, sbagliando il suo bersaglio e non convincendo e neppure divertendo moltissimo, finisce però con l’intercettare queste inquietudini dell’oggi e a esprimerle meglio di un trattato politico, lasciando trapelare quella voglia inespressa, inconscia, rimossa di un nuovo potere forte che serpeggia nel nostro esausto Occidente. Non ci fa molto ridere, ma di sicuro ci dà da pensare parecchio.

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