Our Children (À perdre la raison), regia di Joaquim Lafosse. Con Emilie Dequenne, Tahar Rahim, Niels Arestrup. Presentato a Cannes 2012 nella sezione Un Certain Regard. A Emilie Dequenne è stato assegnato il premio come migliore interprete femminile, ex aequo con Suzanne Clément per Laurence Anyways.
Belgio, oggi. Murielle è innamorata di Mounir, un ragazzo di origine tunisina. Quando si sposano, lui la porta a vivere nella casa in cui abita da anni con Pinget, il maturo signore che lo mantiene. Nascono un figlio, due, tre, quattro. Ma Murielle non riesce a strappare Mounir da quella casa, da Pinget, ormai diventato il patriarca-padrone della famiglia. Finché non si arriverà a un epilogo tragico. Ispirato a un caso di cronaca che ha sconvolto il Belgio, Our Children è un grande film a metà. Sa rendere bene il clima claustrofobico e di minaccia in cui si muovono i protagonisti, ma non ci spiega, non ha il coraggio di dirci l’indicibile. È che ci sarebbe voluto un altro Fassbinder. Voto: 6.
Devo ammettere che, nonostante mi abbia suscitato più perplessità che entusiasmo quando l’ho visto Cannes, questo film è man mano cresciuto nella mia testa, al contrario di altri. Succede col cinema, succede soprattutto ai festival dove l’overdose di film finisce col prostrarti e sottrarti lucidità. A distanza di tempo certe volte i valori si ridefiniscono (certe volte, non sempre) e ti inducono a rettificare le tue valutazioni. Film presentato con doppio titolo – À perdre la raison, Perdere la ragione, per l’area francofona e Our Children, I nostri figli, per il resto del mondo – proviene da quel cinema belga da anni specializzato in storie toste ed estreme, di marginalità esistenziale e sociale o di entrambe, con anime alla deriva tra inauditi squallori metropolitan-rurali e follie sottaciute e sottotraccia ma non per questo meno potenti e devastanti. In testa ci sono i fratelli Dardenne, ovvio, che con le loro plumbee, implacabili storie di bambini, adolescenti e adulti ai limiti dell’umano e del subumano, con i loro universi in cui ogni pietà l’è morta, hanno fondato un nuovo neorealismo con presa immediata in tutto il mondo e su legioni di giovani registi pronti a riprenderne la lezione. Ma penso anche a Bullhead, finito quest’anno nella cinquina degli Oscar per il migliore film in lingua straniera, da noi mai uscito, una storia radicale, insostenibile, di traffici di ormoni per bovini e umani, protagonista un poverocristo che deve ricostruirsi chimicamente una mascolinità compromessa, fino a che la sua mente e i suoi muscoli esploderanno di violenza. Se vi capita, non perdetevelo (mai uscito nei nostri cinema purtroppo), e seguite la grande performance del suo interprete, Matthias Schoenaerts, di tale possanza da indurre poi Jacques Audiard a prenderlo come protagonista insieme a Marion Cotillard per il suo (bellissimo) De Rouille et d’Os presentato allo scorso Cannes. Cinema disturbante, della sgradevolezza, quello belga – vallone o fiammingo che sia – con anche una vena anarcoide e nera nelle sue declinazioni da commedia (Simon Konianski, Eldorado). Si inscrive perfettamente nel quadro Our Children, entrato a Un Certain Regard in odore di un premio importante e uscitone solo con il premio alla sua interprete Emilie Dequenne. Nome, il suo, che forse qualcuno ricorderà. Ebbene sì, Dequenne era la povera Rosetta del film che procurò ai Dardenne la loro prima Palma d’oro nel 1999 a scapito di Tutto su mia madre di Almodovar, e a ripensarci oggi non sembra quella grande ingiustizia cui si gridò allora, anzi. Emilie Dequenne è molto cambiata da quel film, è smagrita, qui in Our Children interpreta una giovane donna piccoloborghese piuttosto coltivata che fa l’insegnante elementare, curiosa, sveglia, lontana dall’immagine subproletaria e dimessa del suo memorabile character dardenniano. In questo film si ricompone anche la grande coppia di attori di Un prophète, il prison movie di Jacques Audiard di qualche anno fa che a Cannes sfiorò ma non vinse la Palma (anche allora andata ad Haneke per Il nastro bianco), mi riferisco al franco-magrebino Tahar Rahim e a Niels Arestrup, che in Audiard rispettivamente erano il giovane carcerato e il padrino della mafia corsa. Si ritrovano qui, e danno vita a un rapporto misterioso e indecifrabile, torbido, di taciturna attrazione. À perdre la raison si ispira a un caso di cronaca nera, nerissima, che sconvole nel 2007 il Belgio, quello della 44enne Geneviève Lhermitte che, per motivi mai chiariti, sgozzò con un coltello i suoi cinque figli, compresi fra i 3 e i 15 anni. Perché? Nessuno, tantomeno lei, ha mai fornito una risposta. Il regista Joaquim Lafosse a quel caso estremo ha pensato, si è ispirato, ma la sua non è una ricostruzione-verità, piuttosto una libera interpretazione e rielaborazione. Cambiano i nomi, cambiano i luoghi e molte circostanze (i figli ad esempio sono quattro, non cinque). Murielle (Emilie Dequenne) si innamora di Mounir, un ragazzo brillante di famiglia tunisina all’apparenza perfettamente integrato. Si arriva al matrimonio, ma anzichè andare ad abitare da sola con Mounir, come il buonsenso suggerirebbe, Murielle si ritrova ad abitare nella casa in cui Mounir vive da molti anni con e sotto l’ala ambiguamente protettiva del maturo dottor Pinget (Niels Arestrup, ovvio), il suo benefattore, il suo mentore, il suo padre surrogatorio che l’ha preso con sè quand’era un ragazzo, lo ha mantenuto e di fatto adottato. Casa naturalmente di proprietà del dottore, il quale diventa man mano una presenza forte, forse minacciosa, di sicuro ingombrante, verso la giovane coppia, che si vede restringere progressivamente il proprio spazio vitale. Nasce il primo figlio, e quella strana famiglia continua a restare sempre unita, sempre in quella casa, nonostante Murielle avverta il bisogno di emanciparsi dalla presenza del dottore. Ma Pinget non ne vuole sapere di averli lontani, Mounir non riesce a decidersi, anche perché c’è qualche problema economico e il dottore è sempre lì pronto a pagare, a sostenere le spese, a mantenere lui, lei e il bambino. Più passano gli anni, più questo groviglio si annoda e diventa inestricabile. Nasce il secondo figlio, poi il terzo, poi il quarto. Pinget compra una casa più grande perché possano tutti continuare a vivere comodamente insieme, è ormai il patriarca, il padre-padrone, tratta Mounir come un figlio-schiavo, lo ha legato definitivamente a sè assumendolo come proprio dipendente e dunque diventando la sua unica fonte di reddito, di fatto controlla la sua vita, e con la sua quella della moglie Murielle e dei quattro bambini, sulla cui educazione pretende di avere un ruolo decisivo. Niels Arestrup (in una parte per cui si era pensato inzialmente a Gérard Depardieu) è formidabile nel suggerire con un semplice gesto, con un’occhiata, con una frase tranchante la minaccia, la pulsione animale al possesso e al controllo, in una prestazione attoriale e mattatoriale oversize che qualche critico americano a Cannes ha paragonato al tardo Marlon Brando del Padrino e di Apocalypse Now, e non siamo troppo distanti dal vero. La vittima, l’anello debole è naturalmente Murielle, che si sente non solo espropriata della propria vita e dei suoi affetti da Pinget, ma avverte che tra lui e Mounir c’è qualcosa cui lei non ha accesso, che appartiene solo a loro. Incomincia la depressione, cerca di uscirne come può andando da una analista, cerca aiuto nella comprensiva madre di Mounir, se ne va per un po’ in Tunisia per staccare da quell’ammorbante atmosfera. Ma Pinget è troppo forte, più forte di lei, di Mounir, di tutti, di tutto. Non si esce dal cerchio che lui ha tracciato e che li costringe, non si può che essere suoi prigionieri. Un giorno Muriel chiama ad uno ad uno i figli nella stanza, e ad uno ad uno li sgozza. Poi telefona freddamente alla polizia: venite, ho ucciso i miei figli. Telefonata che ricalca quella che fece davvero Geneviève Lhermitte dopo il massacro. Anche Geneviève era sposato a un belga di origine magrebina, Bouchaïb Moqadem, anche lei, anche loro vivevano nella casa del benestante signore che aveva adottato Bouchaïb, il dottor Michel Schaar. Se la verità sul caso Lhermitte spetta ai tribunali, agli atti processuali, cosa diversa è per il film. Our Children/À perdre la raison sa comunicarci molto bene l’atmosfera claustrofobica e sempre più asfissiante in cui Murielle si ritrova a vivere, allinea davanti ai noi i fatti, ci mostra il procedere lento di quelle vite verso il punto di non ritorno. Azzecca molte cose, soprattutto la figura terrorizzante, monumentale, totemica quasi, di Pinget/Arestrup, e la sua diabolica abilità nel tessere la rete in cui intrappolare quella sua famiglia non-famiglia, nel plagiare soprattutto Mounir. Ma ahinoi nulla ci dice del perché Murielle uccide. Concatena gli eventi mettendoli in scena in una sorta di nuova-Nuova Oggettività, ci lascia intravedere il disagio di lei, ma i motivi no, mai, quelli non ce li spiega. Il che limita il film, lo castra, lo rende monco. Un grande film a metà, che stinge nello psychothriller, anche nello psycho-horror, senza volerlo essere. L’impressione è che Lafosse sia reticente, esageri con l’ellissi e il non detto. Ma qui non siamo in tribunale, questo è un film. Di fronte a una storia così lo spettatore non può non pensare che tra Pinget e Mounir ci sia da sempre una storia omosessuale. Perché altrimenti lui lo avrebbe mantenuto? Perché ne avrebbe mantenuto anche moglie e figli se non per averlo sempre vicino, per non perderlo? Il film neanche allude a questa ovvia spiegazione, proprio la tace, se ne astiene, neanche la sussurra, neanche la suggerisce. Ma così Lafosse si preclude ogni possibilità di capire e di farci capire, e di costruire una storia comme il faut, capace di interessarci e convincerci. Non era necessario spingere il pedale sul morboso, bastava usare le ben note tecniche del cinema dell’allusione, dell’ambiguità (pensiamo a un Chabrol). Il regista invece fa una scelta austera che finisce con l’essere paralizzante, si astiene da ogni illazione e ipotesi forse per essere fedele il più possibile al caso Lhermitte e alle sue risultanze processuali, dimenticandosi che questo è un film, mica un affare giudiziario. Magari Lafosse non ha voluto tirare in ballo l’omosessualità per non essere accusato di riproporre i vecchio cliché del gay vizioso e ambiguo, per non essere accusato di scorrettezza politica. Non imbocca nemmeno l’altra strada possibile, quella di raccontare di Mounir, Murielle e Pinget nella chiave della sempre complicata coesistenza – nella stessa casa, tra le stesse lenzuola poi – tra arabi ed europei. Ma a noi spettatori di queste cautele interessa poco, noi una verità su Murielle e Mounir e Pinget la vogliamo, la esigiamo. La prudenza del regista finisce col minare la credibilitàn dell’intera storia che mette in scena e svuotarla. Com’è mai possibile che Murielle possa per anni e anni vivere con Mounir e il dottor Pinget, fare un figlio dopo l’altro, farne addirittura quattro, senza mai porsi la semplice domanda che ogni spettatore si fa dopo dieci minuti: non è che i due saranno amanti? Noi mangiamo subito la foglia, Murielle stranamente no. Sicché alla fine tutto ci appare inverosimile, e questo finisce con l’indebolire un film dalle ottime premesse e con una potenziale grande storia. Non è che Lafosse butti via del tutto l’occasione, certo la sfrutta solo in parte. Sarebbe potuto diventare un film importante, questo Our Children, ma ci voleva almeno Fassbinder. Lui sì che queste cose le sapeva raccontare.
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