Il profeta (Un prophète), Rai Movie, ore 21,o0.
Magnifico prison movie che nel 2009 ha conteso fino all’ultimo la Palma d’oro a Cannes a Il nastro bianco di Haneke e che, imho, avrebbe dovuto vincere. Un prophète – preferisco il titolo francese, con quell’indeterminazione densa di significati all’appiattente e banalizzante titolo italiano – va molto al di là del genere. Malik El Djeben, maghrebino cresciuto in Francia, semianalfabeta, confuso, un umiliato e offeso dalla vita, ha solo 19 anni quando entra in carcere. Incomincia per lui la lotta per sopravvivere in quello spazio chiuso, tra secondini brutali e corrotti, e tra i clan che si spartiscono il territorio, tribù criminali tra cui primeggiano i corsi guidati dal boss Luciani (un grandissimo Niels Arestrup). Malik non sa leggere ma è acuto e intelligente, ha grandi capacità adattative, diventa il protegé del boss corso, impara la sua lingua, diventa killer su commissione per dimostrare la sua lealtà e la sua determinazione (e l’omicidio con la lametta è una delle scene più atroci). Lentamente ma irresistibilmente ascenderà ai livelli massimi del potere, giostrando tra i clan dei corsi, degli arabi e quello esterno dei marsigliesi. Malik è diventato grande e quando esce dal carcere trova una corte ad aspettarlo, ormai è un prophète. Scritto da Abdel Raouf Dafri, l’autore dell’eccellente Mesrine con Vincent Cassel (da noi Nemico pubblico), Un prophète è però soprattutto un film che appartiene al suo regista, Jacques Audiard, che lo trasforma in implacabile, quasi antropologica documentazione della presa del potere di un uomo qualunque deciso a tutto, e che dunque diventerà qualcuno. Audiard è definitivamente tra i massimi registi europei e qui raggiunge il suo risultato più alto dopo che ci aveva già dato film notevolissimi come Sur mes lèvres e Tutti i battiti del mio cuore. Con la camera a mano sta letteralmente addosso al suo protagonista Malik, lo segue, lo incorpora quasi e se ne fa incorporare, restituendoci la vicenda nella sua materialità, fisicità, facendone un racconto corporale di sangue, pelle, lacerazioni, muscoli, tumefazioni. Il film ricostruisce una carriera criminale come già si è visto in passato, ad esempio nel Padrino o in Scarface di Brian De Palma (e come si è visto nel recente film italiano, sottovalutatissimo, Là-bas), con un protagonista che sa alternare crudeltà e astuzia e riesce darwinianamente ad adattarsi all’ambiente e a sfruttarne ogni opportunità. Eppure il film degli ultimi tempi che più assomiglia a questo di Audiard, che analogamente ci mostra l’ascesa irresistibile di un ragazzo disposto a tutto per farcela, non è un prison movie, non è una crime story, ma è The Social Network di Aaron Sorkin/David Fincher.
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