Dogville *****, Iris, ore 0,38.
Il vertice di quel maestro senza se e senza ma che è Lars von Trier. Con una Nicole Kidman nel suo momento aureo, poco dopo Eyes Wide Shut, e qui indimenticabile, nella sua interpretazione più alta. Niente scenografie, solo un palcoscenico in cui si tracciano con il gesso i luoghi dell’azione, con abbondanti citazione del teatro didascalico di Brecht, compresa la divisione in capitoli. Film brechtiano anche nell’intenzione pedagogica, nella volontà dimostrativa, nel disegno di portare a galla la struttura materiale soggiacente alle relazioni sociali e umane. Da una qualche parte dell’America rurale anni Trenta arriva Grace, in fuga dai gangster che la stanno braccando per misteriosi motivi (e il riferimento ai climi malavitosi dell’Opera da tre soldi e di Arturo Ui è evidente). A Dogville, il villaggio in cui approda, le danno riparo, ma le chiedono in cam bio di lavorare per la comunità. La sua presenza scatenerà negli abitanti i peggiori istinti, quelli del rifiuto dell’estraneo, della volontà di potenza, di dominio, di sfruttamento. Come un reagente, Grace renderà evidente ciò che era occulto. Alla fine saprà agire. Teatro che è puro cinema, ed è questo il miracolo di von Trier. Set leggendario di cui ancora si parla, sparla e favoleggia, soprattutto a proposito dei rapporti tra regista e Kidman.
La valutazione in asterischi:
* pessimo, da evitare
** evitabile
*** vedibile
**** da vedere
***** indispensabile
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