25 novembre 1970. Il giorno in cui Mishima scelse il suo destino (11.25 Jiketsu no hi, Mishima yukio to wakamonotachi), regia di Koji Wakamatsu. Con Arata Iura, Shinnosuke Mitsushima, Shinobu Terajima. Giappone 2012. Visto a Cannes 2012 nella sezione Un certain Regard.
Ci aveva provato già nel 1985 Paul Schrader a ricostruire vita e morte per suicidio rituale dello scrittore Yukio Mishima. Ci ha riprovato in un nuovo film presentato a Cannes a Un certain regard una gloria del cinema giapponese, il regista Koji Wakamatsu, che sceglie la strada quasi cronachistica della ricostruzione fedele dei fatti. Ne esce un racconto minuzioso, pieno di dettagli interessanti, un docudrama su un pezzo di storia giapponese che però finisce col depotenziare e spogliare di ogni grandezza, di ogni carisma e carica leggendaria l’immensa figura di Mishima. Voto: 6
Uno di quei film che a Cannes sono passati nell’interesse blando e distratto, se non addirittura nullo, della stampa. Ricordo qualche decina di giornalisti alla proiezione, più un buon numero di giapponesi che alla fine hanno patriotticamente e fragorosamente applaudito mentre gli altri se ne sono rimasti in silenzio. È che da un film sullo scrittore (e molto altro) Yukio Mishima e il suo ormai leggendario suicidio con autosventramento rituale, ci si aspettava qualcosa di fiammeggiante, anche morbosamente romantico-decadente se vogliamo, insomma qualcosa all’altezza dell’immagine Mishima e del suo mito. Ci si aspettava in fondo un’operazione simile a quello che aveva fatto molto tempo fa, anno 1985, Paul Schrader nel suo biopic Mishima, rigoroso e stilisticamente assai Impero dei segni, però rutilante di bagliori e cromatismi, e di impeccabile design. Invece in questo film dal titolo interminabile che già rivela una vocazione di spoglio documentarismo da parte del suo regista Koji Wakamatsu, tutto è figurativamente, visualmente depotenziato, normalizzato e perfino banalizzato, scordiamoci ogni sontuosità e estetica laccata, Il giorno in cui Mishima scelse il suo destino de-estetizza, anche se non anestetizza. L’eccezionale vicenda dello scrittore conosciuto in tutto il mondo e giunto alla soglia del Nobel (poi soffiatogli dal connazionale Kawabata nel 1968) che decide di immolarsi per rivendicare l’antica grandezza del Giappone imperiale, viene rievocata con la minuziosità ma anche con il tono dimesso e realistico della cronaca. Nessun carisma particolare circonfonde la figura della protagonista, le persone e cose che gli stanno intorno – la moglie, gli stessi suoi seguaci nella folle impresa, gli ambienti in cui si muovono – hanno il segno del quotidiano e del normale. All’autore di Confessioni di una maschera e Il padiglione d’oro viene riservato un trattamento drastico di riduzione dal mitologico all’umano, in un’operazione simile a quella condotta da Rossellini su tanti personaggi storici da lui raccontati (quel Socrate un po’ sciabattante, quel Luigi XIV mostrato nella malattia e perfino nelle sue funzioni corporali). Il regista Koji Wakamatsu ha un curriculum parecchio interessante e a 76 anni è uno dei grandi vecchi del cinema giapponese. Il cinema incominciò a farlo a fine anni Cinquanta dopo essere stato in galera come affiliato a una banda yakuza, dettaglio questo che non manca mai nelle sue biografie, segno che ci tiene. Ha girato film indipendenti e mai allineati, compresi erotici sconfinanti nel porno. Si è occupato con la sua cinepresa negli ultimi dieci anni di storia moderna giapponese, girando anche un film sull’Armata Rossa Unita, una frangia terroristica di sinistra degli anni Sessanta-Settanta. Stavolta va sull’altra ala estrema, quella della destra più nostalgica e nazionalistica di cui Mishima faceva parte. Si vede che a lui non interessa tanto il mito maledetto e neodannunziano dello scrittore-samurai, dell’intellettuale d’azione, un mito che ha abbacinato e continua ad abbacinare generazioni di ragazzi di destra di tutto il mondo (Mishima è presenza fissa nel loro pantheon), quanto ricostruire attraverso la sua vicenda un frammento, una scheggia impazzita, di storia del suo paese. In quella fine anni Sessanta, mentre le università sono occupate da gruppi agguerriti di studenti che si rifanno al marxismo, sorgono anche piccole ma assai determinate fazioni opposte di ragazzi che coltivano il sogno di ripristinare l’antico Impero del Sole nascente. Fazioni pronte a tutto pur di realizzare i loro ideali. Adorano le divise, vivono nel culto dell’onore e dei valori della tradizione, vorrebbero che il paese stracciasse i (secondo loro) patti scellerati di pace con il vincitore-invasore americano, patti che hanno castrato la patria impedendole di riarmarsi. Ancora piangono la perduta divinità dell’imperatore, ora ridotto a umano tra gli umani, e in segreto coltivano il folle progetto di un colpo militare che ridia al Giappone la grandezza e la dignità perdute. Sono inattuali, ma hanno la fede, sono ebbri delle lori idee fino al fanatismo, disposti a ogni sacrificio. In questo confuso magma nostalgico-nazionalista si inserisce anche Yukio Mishima. Fonderà un suo minuscolo esercito personale, il Tatenokai, La Società dello Scudo, reclutando tra gli studenti più estremi e decisi i suoi adepti-discepoli. Si allenano, improvvisano campi militari di addestramento in vista di un’azione che verrà, seguono i rituali affascinanti e quasi coreografici dei saluti militari, delle adunate, delle marce. Si lasciano sedurre dalle armi, dalle lame di spade e sciabole. Il regista li spoglia però di ogni eroismo e superomismo, ce li mostra come uomini, anche piccoli uomini senza alcuna statura speciale, solo attraversati dalla follia o se vogliamo dal sogno. Dal film emerge un Mishima come intrappolato nelle sue ossessione, nei suoi fantasmi, prigioniero anche del ruolo di capo che si è ritagliato e inventato a uso di quei ragazzi che lo idolatrano. C’è un cameratismo spartano che sa di omoerotismo, ma il regista vi allude appena, non è evidentemente nelle sue corde realiste e naturaliste rivelare e portare a galla certi sottotesti. Quando lo scrittore presenta ai suoi il folle piano di penetrare nella sede del comando delle forze di difesa giapponesi, prendere in ostaggio il generale in capo, lanciare un proclama ai soldati invitandoli alla rivolta e quindi praticare il suicidio rituale, il seppuku, sa che non potrà più tornare indietro. Forse più tardi si pente, ma ormai non può più ritirarsi perché ne andrebbe del suo onore. Sceglie tra i suoi ragazzi colui che, secondo il rituale rigidamente codificato, dovrà tagliargli la testa dopo che lui si sarà sventrato con la spada, e sceglie anche colui che dovrà suicidarsi con lui, il ragazzo che più lo adora e che forse Mishima ama (Mishima era omosessaule, nonostante moglie e due figli). Tutto procede inesorabilmente verso l’esito finale. Qualcuno si defilerà, qualcuno avrà paura. Il commando entra secondo i piani negli headquarters militari, prende in ostaggio il generale, Mishima legge il suo proclama ai soldati incitandoli a riprendere nelle proprie mani il destino della nazione, ma nessuno lo raccoglie. Allora, davanti al generale inorridito, si lacera la pancia come il seppuku esige. Il compagno d’arme designato a recidergli la testa non se la sente, la spada passa a un altro. Tutto si compie, ma senza grandezza, senza alcuna aura. Il film ci presenta lo scrittore e i suoi accoliti come una cellula isolata, travolta dal delirio, tuttosommato di piccoli esseri che si credono grandi e prendono un gigantesco abbaglio, su se stessi e sull’inesistente voglia di ribellione del loro paese, invece desideroso solo di dimenticare, vivere in pace, godersi il benessere. Il rischio è che, riducendo e appiattendo la figura del suo protagonista e sottraendogli qualunque carisma, anche il film si ridimensioni e banalizzi, e il rischio non è evitato. Il giorno in cui Mishima scelse il suo destino finisce col deludere. A interessarci è soprattutto la puntigliosità con cui si ricostruiscono gli ultimi mesi di vita dello scrittore e la rievocazione di espisodi poco conosciuti, come il suo incontro all’università con gli studenti occupanti marxisti con cui cerca di instaurare un dialogo e stabilire un’alleanza nel nome del comune odio al sistema dominante. Tentativo destinato a fallire, e che difatti fallisce miseramente. Sembra perfino suggerirci, il film, che se Mishima avesse vinto il Nobel il suo ego sarebbe rimasto soddisfatto e saziato, e lui non si sarebbe avventurato in quella spirale nichilista e autodistruttiva. Spiegazione piccola piccola per un personaggio che, piaccia o meno, resta immenso. Il regista si mantiene fedele alla sua scelta di sobrietà non mostrandoci nella scena del suicidio né lame che squarciano, né carni lacerate, né sangue. Pensare che lo stesso Mishima, quando aveva girato e interpretato il suo meraviglioso film Patriottismo su un aristocratico militare che decide di suicidarsi, ci aveva fatto vedere ogni dettaglio, fino all’insostenibilità. Era il 1966. Quattro anni prima aveva già prefigurato e messo in scena la propria futura morte. Quello, a tutt’oggi, resta il miglior film su di lui e la sua parabola.
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