Detachment – Il distacco, regia di Tony Kaye. Con Adrien Brody, Sami Gayle, Christina Hendricks, James Caan, Lucy Liu, Tim Blake Nelson, Blythe Danner, Marcia Gay Harden, Betty Kaye, William Petersen. Sceneggiatura di Carl Lund.
Sembra il solito film con il bravo professore alle prese con classe di delinquenti e fancazzisti. Sembra, ma non è così. Questo è un film di molte ambizioni che sconfina nel racconto morale, nella parabola. Henry è un uomo lacerato dentro che cerca di fare il bene, ma è roso dal dubbio e dall’incertezza. Si tirano in ballo, e scusate se è poco, Camus e Dostojevsky. Il bello è che Detachment, nonostante la pretenziosità e i mille sbandamenti, centra il suo bersaglio. Il regista Tony Kaye, quello di American History X, deborda, sperimenta, contamina linguaggi. Ne esce qualcosa di mai visto o quasi, e lui si conferma un autore degno di rispetto. Voto: 7+
Uno dei migliori film dell’anno, eppure tra i più sottovalutati e malcompresi. Tutti o quasi, dai recensori italiani e americani alle note semi-ufficiali che ne hanno accompagnato l’uscita, ne hanno parlato come di un classico school movie, sottogenere professore idealista che arriva in scuola schifosa di un quartiere metropolitano-degradato-sfigato in una classe ancora più schifosa di fancazzisti (nel migliore dei casi) e delinquenti con pistola (nel peggiore), e con ragazze incattivite già pronte per il marciapiede e gravidanze precoci, il tutto con famiglie che non ci sono e se ci sono farebbero meglio a sparire. Il genere esige che alla fine il professore l’abbia vinta e riesca a instillare in quei cervellini scarsamente dotati di neuroni qualcosa di utile e una qualche curiosità, una qualche scintilla di conoscenza. Bene, Detachment sembra un film del genere, ne ha tutti i segni, i caratteri, lo stigma, qualcosa tra La scuola della violenza e Dangerous Minds, ma non è così. Il film prende il genere e lo usa e manipola per andare in altre direzioni, per produrre qualcosa di ambiziosamente alto che si fa racconto morale, meditazione esistenziale. Scommessa inaudita per il cinema d’oggi. La messinscena di Tony Kaye, il regista maudit e sregolato che dopo American History X (1998!) era sparito, è sensazionale, sperimentando linguaggi e avanguardismi e prendendosi libertà di ogni tipo come poche volte in un film come questo, indie sì, ma non a vocazione underground ed elitaria. Si comincia con una frase di Albert Camus in esergo sul distacco da sé e sull’essere nel mondo (il detachment del titolo), e subito ci si allarma per la pretenziosità evidente e vien voglia di scappare dal cinema, invece è il caso di restare. Di citazioni illustri e allusioni letterarie ce ne saranno altre nel corso della narrazione fino all’Edgar Allan Poe dell’epilogo, ma per una volta non sono orpelli esibiti narcisticamente, gingilli intellettualistici, ma elementi narrativi, chiavi per penetrare il protagonista Henry, un giovane uomo ferito da una storia familiare crudele, che cerca di sopravvivere al malessere attuando una sorta di stoico distacco (indifferenza?) dalle cose e dalle persone. L’intento evidente dello sceneggiatore Carl Lund (grande prova la sua) è di tracciare un racconto morale e una parabola neoesistenzialista. Henry nel suo deambulare catatonico, nel suo porsi come cosa impermeabile agli stimoli proveniente dal fuori di lui, forse è una citazione-variazione del camusiano straniero che vaga sconnesso dal mondo e, abbacinato dal sole, finisce con l’uccidere senza sapere perché. Ecco, questo film punta in alto, molto in alto, si pone interrogativi fors’anche fastidiosi e inattuali, rischia il piccolo trattato di filosofia ad uso dei dilettanti, però riesce a costruire e mettere in campo un personaggio di inaudita complessità per gli attuali standard cinematografici, a renderci interessante quest’uomo pieno di ombre e dalla coscienza scavata, dall’io franante, grondante parentele letterarie, soprattutto dostojevskiane. Facile bollare l’operazione come arty, ma il bello di questo Detachment è che, pur sbandando e sbagliando vistosamente, il suo bersaglio alla fine lo centra e ce la fa a comunicare allo spettatore un’inquietudine vera. Come fai a non amare un film così? Henry agisce come un diverso, un alieno, in quella scuola cadente e decadente, tra colleghi disincantati che hanno perso ogni speranza di redenzione di se stessi e degli allievi, e come in Taxi Driver conosce una prostituta ragazzina e la raccoglie e se la porta a casa come si fa con un gatto denutrito trovato per strada. Questo mondo intorno a lui sembra rimandarci a certo cinema di genere, dallo school movie al noir metropolitano al crime, invece è il palcoscenico debitamente degradato e disperato peché Henry possa percorrere il proprio cammino di ricerca della salvezza attraverso il buio, di una piccola salvezza almeno. A essere straordinaria in lui, a rendercelo così prossimo, è la sua bontà. Henry è un Santo, un Giusto, forse un Angelo, caduto magari ma non domo, che pur disincantato e disilluso non rinuncia al tentativo di portare il bene. Ci riesce solo parzialmente, vincerà e sarà sconfitto, la sua missione salvifica non raggiungerà tutti gli obiettivi, intorno a lui ci saranno salvati e sommersi (il memorabile personaggio della ragazza obesa che nasconde una potente visione artistica). Henry è un angelo che tutti amano, che non si può fare a meno di amare, con qualcosa di oltreumano che lo rende irresistibile (e in questo ricorda l’Alain Delon di Rocco e i suoi fratelli). Adrien Brody come Henry è perfetto, prestandogli quel suo corpo così stilizzato, come purificato e disincarnato, in una interpretazione che è la migliore della sua carriera e sopravanza quella del Pianista. Ma il vero vincitore è il regista Tony Kaye, forse un genio incompreso, forse un gran rompiballe, o tutte e due le cose. Fatto sta che si porta dietro una fama di intrattabile che l’ha tagliato fuori per molti anni dal giro. Già per American History X si era messo in urto con Edward Norton, interprete e produttore, che l’aveva poi estromesso montando il film come voleva lui. Poi sul finire della scorsa decade ha girato Black Water Transit con Laurence Fishburne, peccato che il produttore, per motivi mai chiariti (ma anche qui si sussurra di forti conflitti sul set e in post-produzione), non l’abbia mai fatto uscire nei cinema. Un film samizdat intorno a cui sta crescendo una leggenda. Sicchè quando all’ultimo Tribeca Festival è stato annunciato il ritorno di Kaye con questo Detachment lo zoccolo durissimo dei suoi fan è entrato in fibrillazione. Ma la proiezione al festival non è stata entusiasticamente accolta dalla critica americana, qualcuno l’ha definito “un casino da cui però non puoi distogliere gli occhi”, e non è una cattiva definizione. Il film però è man mano cresciuto di status, raccogliendo premi in festival di tutto il mondo e qualche settimana fa è approdato anche, abbastanza incredibilmente viste le premesse, nei nostri cinema. Kaye qui non si nega niente, porta al massimo possibile e al punto di rottura e di esplosione il suo modo di fare cinema assai eterodosso. Vediamo all’inizio interviste finto-documentarie ai personaggi del film, riprese con la solita incerta e ballonzolante macchina a mano da cinéma-vérité di ultima generazione. Qua e là affiora il flusso di coscienza di Henry/Adrien Brody, primi piani quasi immobili, lui a guardare in macchina sentenziando e citando e meditando e riflettendo e forse anche lui delirando. Poi, dialoghi che vengono anticipati, o sono sfasati, rispetto ai personaggi che li pronunciano. Disegni animati alternati al live action, e per una volta non è una narcisata autoriale. Lunghe, lunghissime virtuosistiche sequenze senza tagli nei corridoi della scuola, nei meandri lurdi della città, e naturalmente sogni e incubi e visioni. Perfino un Henry che per consolare il nonno moribondo finge di essere la propria madre defunta e parla con la sua voce (e capisci che solo Adrien Brody a questo punto potrebbe interpretare Norman Bates in un remake di Psycho). Molto, troppo. Il film presenta un sovraccarico visuale dificile da sopportare. Però c’è più cinema lì dentro che in centinaia di film bon ton e di medio gusto che ci affliggono. Magari Kaye sbaglia, e sbaglia parecchio, però questo è un autore che merita rispetto.
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=dayMkcHh7_w&w=560&h=315]
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