(recensione) SINGOLARITÀ DI UNA RAGAZZA BIONDA di De Oliveira ha la bellezza ipnotica di un fossile perfetto

Singolarità di una ragazza bionda, regia di Manoel de Oliveira. Con Ricardo Trepa, Catarina Wallenstein, Diogo Dória, Julia Buisel, Leonor Silveira. Portogallo 2009. Visto al cinema Mexico di Milano (ancora in programmazione).
In qualche cinema è stranamente spuntato questo film girato da De Oliveira nel 2009 a cent’anni giusti. Un film come immobile nel passato, ma proprio per la sua inattualità incantevole. Siamo nell’oggi (nell’oggi secondo de Oliveira), eppure in Singolarità di una ragazza bionda le campane scandiscono il passare delle ore, i signori si levano il cappello al passaggio delle signore, ci si ritrova in club in cui potrebbe entrare Salazar da un momento all’altro. L’effetto è straniante. Però quello del gran portoghese è un cinema di cui abbiamo bisogno per disintossicarci dagli eccessi e dal rumore della contemporaneità. Voto: 8
Allora, facciamo il punto. Manoel de Oliveira ha a oggi 103 anni e qualche mese, essendo nato nel 1908, addì 11 dicembre, a Porto. Una France-Presse ci avvertiva proprio ieri, e si facciano i debiti incroci di dita e le apotropaiche palpazioni, che il venerato maestro (per lui è il caso di spendere questa abusata definizione) era appena stato felicemente dimesso dall’ospedale di Porto dove l’avevano ricoverato la settimana precedente per una crisi respiratoria. Singolarità di una ragazza bionda, presentato al Festival di Berlino, l’ha girato nel 2009 a 100 anni, e da allora questo highlander del set (una mia amica che l’ha intervistato l’anno scorso è rimasta impressionata per come deambulava serafico e agile appoggiandosi appena appena, forse più per vezzo che per necessità, a un elegante bastone) ha prodotto altri tre lungometraggi più un corto. Il rischio a questo punto è di farsi piacere i suoi film in quanto performance strabilianti, prestazioni eccezionali, primati da guinness o se volete da circo di un vegliardo mai domo, più che per le loro qualità. Ecco, quando sono andato a vedermi La singolarità di una ragazza bionda mi sono detto che non sarei dovuto cadere nella trappola della adorazione acritica del maestro e della sua inesausta capacità di generare film, che avrei dovuto mantenere il necessario distacco, e che se il film fosse stato una schifezza o una delusione avrei dovuto avere il fegato di ammetterlo e di scriverlo. Però, signori, il film è davvero notevole, impossibile parlarne male, è il solito incanto di de Oliveira, la solita tela di ragno con cui ogni volta riesce a catturarci e imprigionarci (fors’anche divorarci, chissà). Quello che mi seduce fin dai tempi di La valle del peccato (immenso, davvero) è il suo cinema retrodatato, congelato nel passato remoto, fermo agli anni Trenta o Quaranta novecenteschi di un Portogallo che poi era ancora fermo all’Ottocento. Un cinema come ibernato e poi riconsegnato a noi, un alieno che ha viaggiato negli interstizi dello spazio-tempo ed è insieme nostro contemporaneo e nostro lontano antenato. O, se preferite, un fossile da poco dissepolto, un reperto archeologico, un rudere che, rilucidato e sottratto alla polvere, appare splendente e di ipnotica, immarcescibile, eterna bellezza. Nessuno come lui sa regalarci questo spaesamento, questo viaggio immobile nello spazio-tempo del cinema, e non è solo perché di autori centenari ancora attivi c’è solo lui, no, è un tratto peculiare, intrinseco al suo modo di farlo e affrontarlo, il cinema. Un giovane uomo (non chiamiamolo ragazzo, non va bene, non sta bene per un film di de Oliveira) di nome Macario – che meraviglia di nome, che fragranza di pagine di martirologio sfogliato in una qualche biblioteca di una qualche pieve – si confida in treno mentre sta andando in Algarve con una signora sconosciuta, secondo il motto “ciò che non puoi raccontare a chi conosci bene, raccontalo a chi non conosci” e incomincia a snocciolare a lei (e a noi per flashback) la sua storia tormentata con Luisa, la singolare ragazza bionda del titolo. Ora, Manoel de Oliveira pesca da un racconto dello scrittore suo connazionale Eça de Queiroz, di cui ci mostra il busto all’inizio, vivente e scrivente nella seconda metà dell’Ottocento, ma di quel testo non tenta la minima modernizzazione o attualizzazione, no, lo impagina fedelissimamente in un oggi irreale che è quell’ieri, che è un tempo immobile fuori dal tempo. Sì, si paga in euro in questo film, su una scrivania da contabile scorgi pure un pc, peraltro sempre spento, però Macario, Luisa e gli altri (scarsi) personaggi restano quelli fissati nella pagina di Eça de Queiroz. Tutto è come allora, tutto è allora. In questo film i signori dabbene si tolgono il cappello quando incontrano un signora, le campane scandiscono il passare delle ore, ci si ritrova e si gioca a carte in club in cui potrebbe entrare da un momento all’altro Salazar e non te ne stupiresti, i giovani uomini prima di sposarsi chiedono il permesso agli zii, i giovani uomini chiedono la mano alla madre di lei, i giovani uomini se non hanno abbastanza sostanze rimandano il matrimonio a momenti di maggiore fortuna giacché se non puoi mantenere una moglie non puoi sposarti. Gli affari, l’economia, in questo film sono rappresentati da una vecchia bottega di tessuti con ancora sugli scaffali le tele arrotolate (cose che da noi non si vedono più dagli anni Cinquanta) e, se non si trova lavoro, si emigra in lontane ed esotiche colonie d’Africa in cerca di una sorte migliore. Manoel de Oliveira grazie a Dio non ci pensa nemmeno a contemporaneizzare, anche perché in tutta evidenza il mondo che conosce e in cui vive resta quello, e quel mondo, e solo quel mondo, sa descrivere. La storia di Macario oggi, semplicemente, non ha senso, non è più pensabile, solo de Oliveira riesce incredibilmente a raccontarcela e a rendercela credibile. Il bravo giovine uomo, onesto e gran lavoratore, ha un impiego presso lo zio Francisco, il proprietario del negozio di tessuti di cui sopra. Lavora in una stanzuccia sopra l’emporio con la finestra che dà sull’appartamento di fronte. Finchè un giorno rimane abbagliato dalla ragazza che vi si affaccia, capelli biondi, e in mano uno strano ventaglio cinese coronato di piume. Se ne innamora perdutamente – nei film di de Oliveira ci si innamora così, scambiandosi sguardi alla finestra – la incontrerà, convincerà lei (e la madre) al matrimonio, ma ecco l’intoppo: zio Francisco chissà perché nega al nipote il permesso di sposarsi. Sicchè Macario lascia il posto e ahilui sono guai; non trovando un altro lavoro finisce in una stanzuccia di un alberguccio sprofondando nella miseria più nera, ma proprio quella da naturalismo Ottocento, costretto pure a vendere i vestiti migliori (ed è inverno!) per poter racimolare qualche soldo e sfamarsi. Ovvio che è costretto con la morte nel cuore a lasciare Luisa, mica può sposarla in quelle condizioni. Tornerà da lei solo se e quando avrà i mezzi necessari. Un amico gli propone di espatriare, di andare a lavorare nella colonia delle isole di Capo Verde. Il buon Macario accetta. Seguono altre avventure e disavvenuture finchè, a un passo dal coronamento del suo sogno d’amore, ecco che un imprevedibile picolo, disgraziato evento scompaginerà i piani. Sì, puro feuilleton, ma garantisco che si resta avvinti senza un attimo di noia. A essere irresistible, almeno per me, è lo stile di de Oliveira, il suo fare cinema così peculiare. Macchina da presa fissa (non ricordo il minimo movimento e, se c’è, certo è impercettibile), campo e controcampo, macchina il più delle volte piazzata frontalmente, parole e parole (anche questo un film parlato, come enunciato quasi programmaticamente nel titolo di un de Oliveira del 2003). Cinema elementare, basico, ma io preferisco pensare e dire austero, spoglio, impeccabilmente parco e senza sprechi, senza sciupii vistosi, elegante, di quell’eleganza, di uella signorilità che è rinuncia di ogni orpello e chiassosità. Un cinema che ci riporta all’essenza, contro all’enormità, al barocchismo sfrenato di tanti film di oggi, anche contro la loro volgarità. La scelta di de Oliveira non è arretratezza, non è solo fissazione (in senso freudiano, di fissazione alle fasi precedenti di un processo evolutivo) a un’ancestralità del cinema, è la diretta emanazione del suo essere borghese antico, gentiluomo e signore di un mondo ormai perduto. Un mondo con i valori e i codici di una borghesia lusitana anni Venti e Trenta, con i suoi severi modi e stili di vita, frugale e sobrio, alieno da ogni esibizione ed esibizionismo e da ogni superfluità, in cui il decoro, il ben comportarsi, è tutto e in cui a essere imperdonabile è il non rispetto di questi codici. De Oliveira non solo quell’universo continua a rappresentarlo, e in Singolarità di una ragazza bionda lo fa con ancora più rigore del solito, ma a quello si attiene anche nel suo essere autore. Il rifiuto quasi genetico e assai borghese di ogni volgare eccesso diventa uso parsimonioso del mezzo cinema, significa usare la macchina da presa secondo l’etica del risparmio. L’elementarità dello stile è scelta etica ed estetica. Perché una messinscena rutilante quando puoi ottenere lo stesso risultato e anche migliore con la massima economia? Non sta bene esagerare. Nel fracasso di tanto cinema di oggi quello di de Olioveira è un’oasi, un’isola di silenzio e raccoglimento, è come entrare nel chiostro di un convento lasciandosi alle spalle la metropoli trafficata e convulsa. I suoi film ci sono indispensabili, sono un disintossicante, un rehab. Vedere e rivedere la sequenza iniziale di Singolarità di una ragazza bionda. Un vagone ferroviario, un controllore, i passeggeri. Mentre scorrono i titoli di testa il controllore chiede a ogni viaggiatore, a uno a uno, il biglietto. Lo buca, lo restituisce, augura buon viaggio. Lo ripete sempre allo stesso modo per sedici volte, quanti sono i passeggeri seduti nella carrozza. Noi, prima spazientiti poi ipnotizzati, seguiamo questo reiterarsi di gesti e parole che man mano si trasforma in puro rituale, in cerimonia, in puro cinema.

Manoel de Oliveira, 103 anni

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