Polvo (Polvere), regia di Julio Hernández Cordón. Con Augustin Ortíz Pérez, Eduardo Spiegeler, Alejandra Estrada, Maria Telón. Guataemala/Spagna/Germania/Cile 2012. Presentato nella sezione Concorso internazionale.
Ignacio gira un documentario su Delfina e Juan, moglie e figlio di un uomo ucciso durante una guerra civile centroamericana, di cui ora vogliono ritrovare il corpo. Film che sta tra il cinema politico e quello del delirio, delle ossessioni e derive psichiche, senza mai trovare una strada. Voto 5+
Ah, signora mia, il cinema militante non è più quello di una volta. Quelle bandiere rosse sventolanti, quei cortei, tutti quei pugni chiusi, e l’indignazione, la rabbia degli oppressi e la carognaggine degli oppressori. Già No di Pablo Larrain (vedi recensione), proiettato qualche sera fa in Piazza Grande, ci aveva fatto capire come un genere che è parte della storia del cinema stia subendo mutazioni profonde e inarrestabili. Questo Polvo, di incertissima nazionalità, girato da un regista nato negli Stati Uniti ma di origini guatemalteche, conferma il processo in corso. Lo stesso Pablo Larrain figura tra i produttori e sembrerebbe un marchio di garanzia: purtroppo non lo è. Polvo (Polvere), ultimo dei diciannove film in concorso per il Pardo d’oro – film spesso ostici, impervi, difficili da amare a prima vista – delude abbastanza, incerto com’è tra vari registri e anche generi. Siamo in un paese latinoamericano che più indizi farebbero pensare al Guatemala, paese che tra anni Sessanta e Novanta sprofondò in una guerra civile da centinaia di migliaia di morti e desaparecidos. Le prime scene ci lasciano perplessi e pieni dubbi, come peraltro la stragrande maggioranza dei film visti a questo festival, poiché la sana e bella linearità narrativa del cinema di un tempo sembra essersi persa e oggi qualsiasi regista che voglia farsi largo decostruisce, destruttura e magari distrugge il tessuto della narrazione. Dunque, scene incongrue, irrelate, anche qui. Vediamo un giovane uomo che afferra un coltello, si siede accanto al letto di una donna: la vorrà uccidere e poi uccidersi? Un paio di scene dopo vediamo un giovane uomo, che potrebbe essere lo stesso ma forse no, accompagnare come suonatore-cantante di inni sacri un predicatore evangelico (facendoci capire come il proselitismo evangelico nei mondo latinoamericvano sia sempre più forte e aggressivo). Poi entra in scena il borghese Ignacio, separato dalla moglie con cui ha avuto una bambina, e adesso con Alejandra. Di mestiere fa video, forse il cameraman, non si capisce bene. Con Alejandra sta conducendo un’inchiesta sulla storia di Delfina e Juan, moglie e figlio di un uomo portato via una notte dai militari durante la famigerata guerra civile e probabilmente ucciso insieme ad altri nella foresta. Delfina e Juan (scopriamo adesso che sono l’uomo e la donna della prima scena) stanno cercando il corpo dello scomparso, “per potergli dare una tomba e andarlo a trovare e onorare”, dice Delfina. Seppellire i morti. Ora, la rievocazione degli orrori di quella guerra un tempo avrebbe dato vita a un classico film di impegno politico diciamo alla Costa Gavras (do you remember Missing?). Qui no. Qui il vecchio genere militante si mescola a quello delle alienazioni borghesi di coppia (Ignacio e la ex, Ignacio e Alejandra), soprattutto ai fantasmi, alle fobie, alle derive psichiche. Juan è ossessionato dall’uomo che denunciò suo padre ai militari, lo segue, lo aggredisce, tenta di ucciderne il figlio, ed è ossessonato dal suicidio, tentato più volte. Finale aperto, apertissimo, anche troppo, con il sospetto che il regista non sapesse più dove andare a parare, dopo aver tentato tante, troppe strade narrative diverse. Film che non sa decidere che film essere, mescolando senza riuscirci storie personali minime e grande storia colletiva. Ma in questa sua irresolutezza sta anche il suo interesse, e qualche intuizione non è malvagia, come quella di affrontare la guerra civile guatemalteca non attraverso una grande narrazione, ma mostrandocene le conseguenze sulla psiche di un ragazzo.
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