Non ho sonno, Iris, ore 21,05.
Del 2001, Non ho sonno (bel titolo) appartiene alla fase più matura di Argento, quella in cui il nostro maggior autore di thriller-horror, e non solo nostro, percorre ogni possibile strada, rimescola i generi, tenta innovazioni e nello stesso tempo si chiude nell’autocitazionismo e nella pura maniera, nell’argentismo se così si può dire. Una fase che non ha avuto e non ha la stessa fortuna dei suoi film anni Settanta-Ottanta, ma che resta pur sempre l’espressione di un magistero registico dove rintracciare tracce e scorie luminescenti. Gli autori veri vanno visti sempre e a prescindere, perché il loro talento può balenare anche dove e quando non lo aspetti. Dunque, guardiamocelo questo Non ho sonno, senza misurarlo con il bilancino avaro, acrimonioso e spocchioso di certa critica. Un film in cui Dario Argento sembra voler tornare alla sua iniziale trilogia animale (L’uccello dalle piume di cristallo ecc.) e al capolavoro del suo primo periodo Profondo rosso, dunque a un racconto di inchiesta su una serie di efferati e misteriosi delitti. Lo sprofondamento di certo Argento maturo nella pura visionarietà, se vogliamo nel delirio senza più relazione con una qualsiasi logica-normalità narrativa, qui sembra arrestarsi, e sembra tornare la voglia di una storia più strutturata. C’è un poliziotto che nella Torino primi anni Ottanta promette a un ragazzino che troverà chi gli ha ucciso la madre. Quasi vent’anni dopo alcune prostitute vengono trovate morte, e il detective intuisce che c’è una qualche relazione con il precedente, antico delitto. Torna in città anche il ragazzo, ormai adulto, e insieme daranno la caccia al killer. C’è una filastrocca (scritta da Asia Argento!, e già questo renderebbe cultistico il film), ci sono altri richiami all’infanzia proprio come in Profondo rosso. Ci sono gli spazi notturni e sinistri di certa Torino, uno scenario urbano da sempre congeniale ad Argento, perfetto per i suoi incubi. Il poliziotto è Max Von Sydow, si rivede Gabriele Lavia, e anche questa è una citazione di Profondo rosso come la musica dei Goblin che tornano a collaborare con il regista. C’è una coppia di attori italiani allora molto presente nel nostro cinema autoriale, Stefano Dionisi e Chiara Caselli. E c’è Rossella Falk!
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