Mulholland Drive, Iris, ore 23,18.
Non dirò troppo, perché qualsiasi cosa io dica rischio serissime reprimende, se non peggio, dalla schiera dei lynchiani puri e duri che non tollerano, non dico una sfregio, ma la benché minima sbavatura o approssimazione sul loro idolo. Questo è un David Lynch del 2001, quindi già nella sua fase avanzata, quella in cui butta (o almeno sembra buttare) ogni residua voglia di fare cinema mainstream e se ne frega di ogni coerenza narrativa per levarsi in libertà nella pura visione, o forse delirio. Per i suoi devoti Lynch è il presente, il futuro e il futuro anteriore del cinema. Semplificando, diciamo che Mulholland Drive è uno psycho noir, con una ragazza senza memoria e un’aspirante attrice che si innamora di lei e cerca di aiutarla. Incubi, allucinazioni, fantasmi dal passato e anche dal cinema di una volta. Per gli adepti al culto del maestro, un’opera assoluta. Adorato dalla critica sotto i 40 anni, regolarmente tra i più votati nei sondaggi recenti sui migliori film di sempre. In fondo, assai più trasparente e decifrabile di quanto non appaia a una prima visione e di quanto lo stesso Lynch abbia abilmente fatto credere. Questa storia nella solita ambigua Hollywood dell’attrazione di una donna (bionda) per un’altra donna (mora) non solo cita e ricicla l’eterno tema del doppio e del rispecchiamento narcisistico, ma gioca spudoratamente con le immagine consacrate e depositate della nostra memoria del grande cinema americano del passato, in un tempo che è oggi, ma anche ieri e domani. Un tempo sospeso, fors’anche ciclico, da eterno ritorno. Nella prima parte la narazione è scombinata, destrutturata, stravolta, tra visioni, ossessioni, fantasmi, incongruità e incoerenze varie, secondo una logica folle, o una follia logica, qualcosa comunque che è oltre la ragione. Ma la seconda parte del film spiega a poco a poco la prima, applicando abbastanza fedelemente le teoria freudiana dei sogni, secondo i ben noti principi dello spostamento, della rimozione, del capovolgimento. Sicchè alla fine tutto torna e tutto si spiega. A meno che anche questo non sia un’altra beffa di Lynch.
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