Pavilion, regia e sceneggiatura di Tim Sutton. Con Max Schaffner, Zach Cali, Cody Hamric, Addie Bartlet, Aaron Buyea. Presentato in Concorso (Torino 30)
Il quindicenne Max e i suoi amici, ripresi prima a Syracuse, New York, poi in Arizona, mentre cazzeggiano, fanno acrobazie con le loro bici da cross e i loro skateboard o nuotano nel lago. Non c’è altro? No, non c’è altro. Il regista Tim Sutton guarda in tutta evidenza a Gus Van Sant ma, diversamente da lui, si limita a osservare, registrare, senza cavar fuori uno straccio di storia. Di quei film che ti fanno arrabbiare, radicali e presuntuosi come sono, e però fascinosamente ipnotici. Com’è ipnotico il vuoto.
Un altro film di questo concorso torinese proveniente, come Sun Don’t Shine di Amy Steimetz, dall’SXSW Festival di Austin, ormai il secondo per importanza del cinema indie americano appena dietro il Sundance. Film astratto, impalpabile, inafferrabile, elusivo, certo uno dei più connotati e compatti stilisticamente di questo Torino Film Festival. Opera sospesa, fluttuante, aerea, che ti aspetti che da un momenti all’altro si materializzi in una narrazione invece macchè, la narrazione non arriva mai. Di quei film che ti fanno un attimo incazzare, ma poi ti conquistano o chissà, ti prendono per stanchezza, per estenuazione, per rovinosa caduta di ogni difesa (o forse è la ben nota sindrome di Stoccolma che coglie lo spettatore dei festival o il cinefilo estremo, vittima e complice di certi autori carnefici). Film irraccontabile, perché non c’è racconto. La macchina da presa del regista, che supponiamo giovane, Tim Sutton, riprende quasi sempre a una certa distanza, come per non coinvolgersi e coinvolgerci con i suoi soggetti-oggetti, alcuni ragazzini, adolescenti sui 14-15 anni, prima dalle parti di Syracuse, stato di New York, poi laggiù nell’Arizona. A connettere i due mondi è Max, che con una certa generosità possiamo definire il protagonista del film, il quale vive in un sobborgo di Syracuse in mezzo al verde e vicino a un glaciale lago e poi si trasferirà dal padre in Arizona. Intorno a lui, gruppi di coetanei-amici, ragazzi e ragazze, ma son più i ragazzi. Soprattutto, si scatenano acrobaticamente con le loro BMX, le cross bike, o con gli skateboard, o si buttano nel lago. si vestono, si spogliano, di tanto in canto cadono, si sbucciano e si feriscono un po’. Prima di partire, Max se ne sta in hotel con lo zio, ogni tanto va a trovare la nonna frikkettona che fuma la shisha, ma come in tutti i film americani visti qui e nei festival recenti i rapporti di famiglia son spappolati, infragiliti, complesse trame di padri e madri separati, e nuovi compagni e compagne, e figli che son figli dell’altro, e fratellastri, in aggregati precari che si possono scomporre e ricomporre diversamente da un momento all’altro. Non c’è niente di più, nel film, se non la registrazione maniacale e non partecipata, fredda, distanziata e distanziante, di queste vite fatte di cose minime, che trovano la loro espressione soprattutto nella performance fisica. Si son fatti, come riferimenti, giustamente i nomi di Gus Van Sant e Larry Clark, ma in loro c’è partecipazione rispetto all’universo giovane che raccontano e almeno il tentativo di cavarne delle trame. Qui no. C’è solo lo sguardo e la rappresentazione. In un radicalismo che comunque non ti lascia indifferente.
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