Rudolf Nureyev alla Scala, Rai 5, ore 0,11.
Per ballettomani, ma anche per chi (come me) il balletto fatica a sopportarlo. È che Nureyev è personaggio bigger than life che travalica ogni stretta definizione, travolge e ridicolizza ogni tentativo di rinchiuderlo in una identità a una sola dimensione. Sì, è il danzatore massimo del Novecento insieme al conterraneo Nijinski, di cui è una sorta di misterica reincarnazione. Sì, è colui che ha ripulito la danza maschile dagli sdilinquimenti e ne ha fatto un’esibizione di muscolarità, energia, anche aggressività virile. Ed è anche quello che ha riportato in vita il divismo maschile nel balletto, sepolto da decenni di egemonia femminile. Questa messa in onda ci ricorda anche il decennale della sua morte, avvenuta il 6 gennaio 1993. Rudolf Nureyev è stato monumentale anche (soprattutto?) fuori dai teatri, per la sua storia di russo fuggito lontano dai soffocanti climi sovietici, per la carica irridente e dandistica con cui ha vissuto, amato, odiato, per come ha saputo suscitare entusiasmi e rifiuti di pari intensità. Difficile raccontare la parabola di Nureyev, dalla carriera abbagliante alla fine prematura, consumato dall’Aids. Ci prova questo docufilm del 2005, curato da Claudio Risi e dal padre, il grande Dino (ed è un motivo in più per non perderselo), che cuce alcuni spezzoni di spettacoli di Nureyev alla Scala di Milano insieme con le testimonianze di chi lo conobbe in quei momenti e lavorò con lui. O che semplicemente ne ha vissuto il mito. Vediamo e ascoltiamo Roberto Bolle, Maurice Béjart, Liliana Cosi, Carla Fracci, Anna Razzi e Milva. La quale di Nureyev ricorda, oltre alla prodigiosa tecnica, la perfezione del lato B. Anche questa era Nureyev.
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