Storia di una capinera, Iris, ore 1,16.
Solo a Franco Zeffirelli poteva venire in mente di girare nei primi anni Novanta un film da un feuilleton di Giovanni Verga. Neanche il Verga verista cosiddetto maggiore, ma proprio quello dei melodrammi divorati da lettrici ansiose di spargere lacrime su amori e amanti infelici. Un’assoluta stravaganza. Anche, a modo suo, una prova di coraggio in un cinema che andava in tutt’altre direzioni e con un pubblico ormai sideralmente lontano. Dunque, come si può voler male a un’impresa tanto matta e disperata votata al fallimento fin dalla partenza? Si deve sempre stare dalla parte dei deboli, al cinema come nella vita. Invece si maramaldeggiò su Storia di una capinera che, certo, nella sua insensatezza kitsch i fulmini e gli strali se li attirava voluttuosamente, ma che almeno il rispetto se lo meritava. Zeffirelli lo conosciamo molto bene, intendo, nel bene e nel male, ultimo discendente di quell’albero genealogico del gusto italiano che molto ha dato allo spettacolo in ricchezza figurativa, perfezione formale, eleganza e vaie squisitezze. Luchino Visconti in testa, con tutti quelli della sua factory, come Piero Tosi; e poi Mauro Bolognini, Giuseppe Patroni Griffi, a teatro Giorgio De Lullo. Il mestiere di metteur en scène Zeffirelli lo conosce bene, è uno che sa disporre tende, ninnoli, decori vari comme il faut, senza sbagliare epoca. Sì, vero, con una qualche tendenza a sovraccaricare, a eccedere (il nostro non è mai stato un minimalista), ma insomma la cultura e il know how in queste cose mica glieli possiamo negare. Allora vediamo, o almeno diamo un’occhiata senza troppi pregiudizi a questo Storia di una capinera, ambientato in una Sicilia secondo Ottocento non lontana e non troppo dissimile da quella del viscontiano Gattopardo, che giusto ieri sera è ripassato in tv, ed è sempre una meraviglia. Catania, ai tempi del colera. Un giovane studente di nome Nino sfolla in campagna con la famiglia per sfuggire all’epidemia e lì, al villaggio, conosce la ragazza Maria, destinata a diventare monaca di clausura e già educanda in convento. Sboccia qualcosa che si può dire passione, anche se i corpi resteranno lontani e inaccessibili l’uno all’altro. Ma come può Maria sottrarsi al destino che è stato tracciato per lei? Finirà drammaticissimamente, ovvio. Storia di una disperazione d’amore e di una follia d’amore, e di un amore impossibile, non lontana da certi capi d’opera romantici come Cime tempestose. Molto à la Zeffirelli, con i temi a lui cari della bellezza e della felicità giovanili distrutte dalla malvagità del mondo, come già nel suo capolavoro Romeo e Giulietta. Facile sogghignare e massacrare un flm come questo. Ma i gentiluomini non si accaniscono mai sui deboli. Guardiamocelo, questo Storia di capinera, con signorile magnanimità. Che poi le scenografie zeffirelliane son sempre un bel vedere, la Sicilia più interna una meraviglia, i melodrammi sempre succulenti. E c’è Valentina Cortese quale madre superiora. Già da sola vale.
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