Recensione. FLIGHT parte come (avvincente) disaster-movie, poi sbanda e perde la rotta

FLIGHTFlight, regia di Robert Zemeckis. Sceneggiatura di John Gatins. Con Denzel Washington, Kelly Reilly, Don Cheadle, John Goodman, Bruce Greenwood, Melissa Leo.F
Una mezz’ora iniziale da cuore in gola: un aereo finisce nella tempesta, va in avaria, cade. Poi Flight prende un’altra strada e si concentra sul pilota, un eroe che ha evitato il disastro, ma che rischia lo stesso di finire condannato per uso di alcol e droga. Ma cos’è: il racconto di una dipendenza? una parabola di abiezione e redenzione? un legal thriller? Il meglio è Denzel Washington, che occupa lo schermo con tale forza e fisicità da pietrificare tutto quello che gli sta intorno. Voto 6F
FChi ha paura di volare meglio si astenga. La prima mezz’ora di Flight è un disaster-movie concentrato e paurosissimo su un incidente aereo, tutto visto dalla prospettiva di chi sta dentro il maledetto (e scassato) velivolo, passeggeri e equipaggio. Gran narrazione di tensione e di paura, benissimo orchestrata da un Robert Zemeckis che dopo tempo immemorabile e non poche stupidate torna a raccontarci una storia non in 3D e finalmente in live action, con attori-attori mica figurine digitalizzate. Ci si ritrova inchiodati alla poltrona come poche volte di recente (è capitato per esempio con Argo), che poi è quello che ci aspettiamo dal cinema-spettacolo. Il volo Orlando-Atlanta, poco più di un’ora, finisce in una tempesta e si incomincia a ballare il ballo di San Vito. Corpi e cose che cascano, volano, ruzzolano, capitombolano. Turbolenze da togliere il respiro e il senno. Poi arrivano guai meccanici, l’aereo cede e va giù in picchiata. Ma con una temerarietà e una tempra da capitano coraggiosissimo il pilota Whip Whitaker riuscirà ad atterrare in un campo evitando lo schianto (e la mossa geniale è stata di aver capovolto in volo l’aereo per stabilizzarlo). Qualcuno, tra cui due ragazze della crew, ci resta, ma 96 persone, la quasi totalità, si salvano. A questo punto anche lo spettatore si sente un attimino sollevato e ricomincia a respirare. Solo che si chiede: adesso che la parte cafatastrofica si è conclusa con un quasi happy end come continuerà il film, visto che mancano ancora quasi due ore (il minutaggio segna un totale di 139, secondo l’attuale tendenza extralong e extralarge), come riempiranno regista e sceneggiatore il tempo che resta? Ecco, il guaio di Flight è questo, che la prima parte quale disaster-movie funziona alla grandissima, ma quel che segue è vagolante e imbocca varie piste senza mai trovare una rotta. Sceneggiatura ad alta turbolenza, quella di John Gavins, che ci strattona, e strattona la storia di qua e di là senza mai decidersi. Dunque: il capitano Whip Whitaker è un eroe, un genio del volo, in un tempo normale e in un paese normale lo monumentalizzerebbero seduta stante, lo farebbero santo subito, invece macchè, ormai i tempi son quelli che sono, tempi incarogniti, tempi di legulei e class action e paranoiche ricerche di responsabilità e irresponsabilità. Così il nostro dopo aver salvato 96-persone-96 si ritrova al centro di un’inchiesta e quasi imputato.

Le cose si mettono male per lui quando dagli esami in ospedale dov’è stato ricoverato dopo l’avventuroso atterraggio risultano livelli di alcol allarmanti nel sangue. Sì, Whip è un alcolista perso e pure amante della coca che usa per tirarsi su dalle ciucche (astenersi da troppo facili calembour sulla parola pista). Un omone – difatti è quel colosso di Denzel Washington che più gli anni passano e più riempie lo schermo con una fisicità imponente, e quando c’è lui in scena gli altri semplicemente svaniscono – che era sbronzo e strafatto anche durante il volo maledetto. Il bello è che per aria se l’è cavata magnificamente, e vien da chiedersi se tanta brillantezza ai comandi sia paradossalmente merito di, e non malgrado, quello stato di alterazione. Ma vi pare che il film possa andare in questa direzione e risolversi in un elogio del vizio salvifico? Figuriamoci. Whip Whitaker, che nel suo abbandono agli eccessi – ah sì, oltre a alcol e coca c’è pure il sesso – ci viene mostrato come una specie di orco (quando afferra le bottiglie con quelle manone ci corre un brivido lungo la schiena), rischia di essere imputato per aver pilotato in stato di ebbrezza, anche se ha fatto il miracolo, anche se la causa accertata è un guasto meccanico. E si ritrova a rischiare tutto, vita, carriera, onore, quel che resta della famiglia (una ex moglie e un figlio che lo detestano e che manco lo fanno entrare in casa e lui giustamente incazzato sbotta: “ma il mutuo lo pago ancora io!”). C’è un avvocato furbo, c’è un amico che gli resta fedele, sicchè Whip sembra potercela fare a evitare grane, fino al colpo di scena (insomma) finale non così imprevedibile.
Non voglio mica difendere i piloti d’aereo ubriachi. Dico solo che in questo film c’è una clamorosa contraddizione drammaturgica, narrativa, che lo mina irreparabilmente. Per giustificare la messa sotto accusa di Whitaker bisognava presentarcelo nella parte iniziale come colpevole, come responsabile di un errore. Se invece ce lo presentate come un eroe che ha fatto l’impresa che senso ha la successiva imputazione? Sicchè la sua unica, vera colpa alla fin fine diventa non l’aver pilotato in stato di ebbrezza, ma di essere un alcolista, e non è una differenza da poco. Non si capisce nemmeno cosa sia davvero Flight, o cosa voglia essere, se la descrizione di un caso di psicopatologia alcolica, o un legal-thriller, o ancora una esemplare parabola molto americana di abiezione e successiva redenzione. Tutte e tre le cose, probabilmente, cioè nessuna davvero, ed è un altro guaio. Il racconto di Whip alcolista si inserisce nel nutrito filone cineamericano di coazione alla sbronza che va da Giorni perduti di Billy Wilder passando per I giorni del vino e delle rose di Blake Edwards arrivando fino al recentissimo indie movie Smashed visto al Torino Film Festival lo scorso novembre (e chissà se uscirà mai nei nostri cinema). Dunque, secondo un collaudato schema narrativo, ecco Whip che cerca di smettere, ma poi ci ricasca, e smette di nuovo per ripiombarci ancora e così via, con tanto di sedute degli Alcolisti Anonimi che lui sdegnosamente rifiuta. Digressione: questo è proprio il momento delle dipendenze al cinema, oltre all’alcolismo di Smashed e di questo Flight ci sono i sex addicted in rehab di Thanks for Sharing (Mark Ruffalo/Tim Robbins/Gwyneth Paltrow), pure quello visto a Torino, e l’addensarsi di film su un simile tema qualcosa vorrà pur dire.
Indeciso a tutto, Flight oscilla paurosamente e ambiguamente tra l’indulgenza verso i peccati del pilota Whitaker e l’implacabile, puritana condanna. Ci viene mostrata una figura di pusher di travolgente simpatia, un John Goodman col codino, vecchio frikkettone specializzato in ogni droga possibile (la seconda grande performance dell’anno di Goodman dopo quella del truccatore di Argo), solo che subito dopo si passa al registro indignato-vituoso deprecando e scandalizzandosi, fino all’incredibile e insostenibile finale che perfino in una vita dei santi Lux-Bernabei suonerebbe troppo melenso. Flight è un film al meglio irrisolto, al peggio sballato, sbagliato, inconcludente e perfino schizoide, che ci fa la lezioncina di etica, ma nello stesso tempo ci mostra voluttuosamente la colpa e il peccato. Difetti drammaturgici e narrativi che ne fanno però un prodotto, come dire, sociologicamente interessante. Un film che solo gli Stati Uniti, con il puritanesimo inscritto nel codice genetico nazionale, potevano produrre. Film che un tempo si sarebbe detto americanata, e adesso non si usa più, ma insomma ci siamo capiti. Flight è impregnato di valori e visioni culturali dai quali noi europei siamo parecchio distanti, secondo cui la pubblica virtù deve essere lo specchio di quella privata, e viceversa, e tra le due dimensioni non vi può essere contraddizione possibile, e se c’è va sanata e ricomposta. C’è una presenza in Flight della religione e della fede cui non siamo abituati: Margaret, una delle hostess, è una cristiana di non so quale chiesa, forse fondamentalista, l’abilissimo avvocato di Whip si dà da fare perché tra le possibili cause dell’incidente aereo sia inserito anche “atto di Dio”, e il bello è che ci riesce. Il resto è Robert Zemeckis, il cui mestiere resta indiscutibile, e che riesce a fare spettacolo anche con una storia privata e intima. Come nella scena, fantastica, della bottiglia di vodka (o altro, non ricordo bene) piazzata sul frigobar e inquadrata a lungo a camera fissa, finchè non arriva la mano violenta di Denzel Washington a portarsela via. O lo strepitoso monologo del malato di cancro che sulle scale si trascina il suo albero di flebo e dice cose sulle morte così toccanti e di tale stoicismo che non lo dimentichi più. Son queste le scene per cui vale la pena vedere Flight, oltre che per la prima parte e per Denzel Washington, un titano, che riesce a tenere sotto controllo un personaggio così contraddittorio scegliendo la strada interpretativa della reticenza, dell’interiorità. Giusto avergli dato la nomination all’Oscar (che comunque, salvo imprevisti, e spero che l’imprevisto sia Joaquin Phoenix, andrà al Daniel Day-Lewis di Lincoln).

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3 risposte a Recensione. FLIGHT parte come (avvincente) disaster-movie, poi sbanda e perde la rotta

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