Recensione: THE LAST STAND – L’ultima sfida. Torna Schwarzenegger, ma non è più tempo di eroi anni Ottanta

AThe Last Stand, l’ultima sfida, regia di Jee-Woon Kim. Con Arnold Schwarzenegger, Forest Whitaker, Jaimie Alexander, Rodrigo Santoro, Eduardo Noriega.S
Il ritorno da protagonista del 65enne Schwarzenegger non ha convinto il pubblico americano, che ha detto clamorosamente no a questo The Last Stand. Anche se risaputa, la storia è messa in scena con energia ed esuberanza visiva dal coreano Jee-Woon Kim, il regista del meraviglioso Il buono, il matto, il cattivo. Eppure qualcosa non funziona. Schwarzie, che intanto ha messo su una faccia lignea alla Eastwood, non riesce più ad essere credibile come action hero. Voto 6 menoR
Meglio ricordarlo subito: questo ritorno, molto atteso, di Schwarzenegger al cinema da protagonista (non contiamo le comparsate di I mercenari), è stato al box office americano un flop colossale. Distribuito in quasi tremila sale, dopo un paio di settimane The Last Stand ha tirato su la miseria di 10 milioni di dollari, con una media per sala ridicola, perfino imbarazzante. Il responso del pubblico è inequivocabile, un rifiuto senza se e senza ma, forse sarebbe il caso di dire rigetto, repulsione. Eppure il film non è così male, Schwarzenegger oltretutto ha messo su nel frattempo una bella faccia lignea assai cinegenica alla Clint Eastwood che poteva costituire un valore aggiunto. Eppure non ha funzionato. Forse è dura per il pubblico americano riaccettare come action hero uno che è stato governatore della California, cioè un politico mica di secondo piano, anzi, coinvolto anche in scandali e scandalucci privati, corna alla moglie e un figlio da una ex domestica, roba da feuilleton Ottocento. Schwarzie ci fa una figura patetica in una simile retrocessione di rango e status, ed è forse quello ad aver causato il rifiuto di massa, non può che sembrarti patetico uno che a un certo punto sembrava in rampa di lancio per la Casa Bianca e invece te lo ritrovi invecchiato a menar botte e rincorrere ansimando il cattivo di turno. Stiamo a vedere come il pubblico italiano, molto meno coinvolto nelle faccende pubbliche e private di Schwarzie, reagirà al clamoroso comeback del più rappresentativo totem dell’action anni Ottanta insieme a Stallone. The Last Stand è ovviamente solo un vehicle, nient’altro che un vehicle, al servizio del suo protagonista, con un plot professionalmente congegnato anche se (volutamente?) prevedibile e déjà-vu, con un sapore di rozzo e spiccio, ma non del tutto scemo, B-movie, dialoghi semplici fino alla elemantarietà che neanche più nei fumetti popolari italiani (“ma tu chi sei?” “io sono lo sceriffo!”). Non manca l’autoironia (“ma sceriffo, per farsi tutti quei muscoli è stato in palestra?” dicono al sempre strabordante, fisicamente parlando, Schwarzie). Dunque la ricetta sembrerebbe attentamente dosata, eppure il soufflé si è, almeno al botteghino, afflosciato.
Il nostro è Ray Owens, un tempo agente sul fronte caldo magelapolitano di Los Angefles, adesso ritiratsio a fare lo sceriffo in un (apparentemente) tranquillo angolo di California a due passi dal Border col Messico. Il suo tran-tran viene sconvolto allorchè un narcotraficante evade rocambolescamente (o alla Diabolik: il trucco del grande magnete le leggendarie sorelle Giussani lo usavano già nei loro album negli anni Sessanta) durante il trasferimento carcerario a LA e a bordo di una supercar ad alta velocità si dirige verso il confine, essendo il suo obiettivo quello di rientrare nella patria messicana e accucciarsi tra i sodali del suo potente clan criminale. Mentre quelli dell’Fbi, cui il tremendo e anche sadico narco è sfuggito, continuano a non capirci niente, lui, il nostro sceriffo Owens/Schwarzenegger, capisce tutto. Capisce che una squadra di complici lì fuori dal paesello sta aspettando in assetto di guerra il criminale, costruendo un ponte militare che gli consentirà di superare con il suo bolide rosso il canyon che separa Usa e Mexico. I federali, che in questo film non ci fanno una gran figura, continuano a perdere tempo, così toccherà allo sceriffo, ai suoi pochi assistenti e a un paio di tizi arruolati per l’occasione, scontrarsi con il fuggitivo e il suo esercito personale. Sarà battaglia cruenta, cruentissima, fino al corpo a corpo finale, indovinate tra chi e chi.
C’è in The Last Stand un precipitato chimico e un concentrato di mitologie americane e mitologie hollywoodiane (e spesso le due coincidono). L’uomo solo contro tutti, il giusto che difende la legge dall’assalto dei fuorilegge, la lotta per la sopravvivenza così tipica della frontiera, l’attesa del momento fatale dello scontro decisivo, quasi un’ordalia. C’è molto western classico, da Mezzogiorno di fuoco quasi filologicamente citato (lo sceriffo e i malvagi in arrivo) a Un dollaro d’onore (la scombinata, ma eroica squadra dello sceriffo). C’è, soprattutto, il culto assai western e assai profondamente americano delle armi, il cui possesso appare nei film come un inalienabile diritto del cittadino, e si pensi al momento in cui la vecchietta fulmina col fucile uno dei malvagi penetrati in casa sua. Nell’attuale grande dibattito negli Usa sull’uso e il possesso delle armi, e su una loro possibile regolamentazione, dibattito esploso dopo l’ennesima strage nell’ennesima scuola a stelle e strisce, The Last Stand appare come un inno all’autodifesa e alla tradizione della frontiera. Il resto è una confezione smagliante, accelerazioni adrenaliniche, ritmo convulso ma senza isterie, scene action orchestrate impeccabilmente e con occhio infallibile. Script abbastanza da B-movie, ma regia di primissima serie. Mica per niente la firma è del coreano Jee-Woon Kim, il gran autore manierista di Il buono, il matto, il cattivo, hommage splendente a Sergio Leone. Qui Jee-Woon è al suo esordio hollywoodiano, fa egregiamente il suo mestiere immettendo nel genere action-Schwarzenegger il gusto iperbolico, la confezione iperlucida, la piena, ribalda muscolarità del suo cinema e di tanto cinema asiatico. Peccato che il pubblico americano non abbia apprezzato. Curiosamente, un altro autore coreano come lui, anche se forse più celebrato di lui nelle arthouse, il Park Chan-wook di Old Boy e Lady Vendetta, ha appena esordito nel cinema americano con Stoker, psycho-drama appena presentato al Sundance, ma che noi vedremo a maggio (l’ho visto in anteprima e posso dire solo, visto l’embargo in atto su ogni informzione al riguardo, che si tratta di un lavoro parecchio interessante anche se non del tutto risolto). Quanto a Schwarzenegger, chissà se è il caso di riproporlo come eroe action. Ormai si muove lento e impacciato, la sua scultorea perfezione fisica si è con l’età inevitabilmente deteriorata, l’agilità (che non è mai stata eccelsa) tende pericolosamente allo zero. Forse sarebbe il caso davvero che puntasse di più su quella faccia reticolata di rughe alla Clint che si ritrova adesso, un bella faccia per una nuova onorevole carriera di nuovi ruoli.

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