Ripubblico la recensione scritta un anno fa durante il Festival di Berlino 2012 dove il film era stato presentato – in concorso – con il titolo Barbara. Il film ha poi vinto l’Orso d’argento per la migliore regia. Nei cinema italiani da giovedì 14 marzo 2013.
La scelta di Barbara, regia di Christian Petzold. Con Nina Hoss, Ronald Zehrfeld, Rainer Bock, Christina Hecke. Presentato in concorso alla Berlinale 2012.
Il primo serio candidabile ai premi è tedesco. È molto piaciuto difatti questo ritratto di una donna complicata ai tempi della DDR, austero, rarefatto, pieno di silenzi. Cinema della sottrazione, del mistero e della minaccia. Un film che richiede pazienza e un po’ di dedizione, ma che alla fine (se resisti) ti ripaga. Voto 7
Probabilmente il primo candidabile a qualche premio importante tra i film visti finora in concorso (ci sarebbero anche i Taviani, ma credo che la giuria preferirà nomi più freschi). Oltretutto film tedesco, oltretutto film tedesco che tratta di una piccola storia ai tempi grigi della DDR. Qui a pubblico e stampa è piaciuto molto, potrebbe piacere anche ai giurati. Diretto dal quarantenne Christian Petzold, un film austero che parte a fari spenti e a bassissima velocità, poi prende quota e ti avvolge. Scenario la DDR, ma dimenticatevi Le vite degli altri. In Barbara il controllo poliziesco sulle vite c’è eccome, è soffocante e pervasivo, ma più che mostrarci la brutalità degli apparati al lavoro (c’è anche quello, ma non è il centro del racconto) il film ci fa pervenire soprattutto il senso continuo di minaccia, di intrappolamento, di claustrofobia.
Il regista Petzold per almeno quaranta minuti ci dice poco o nulla dei personaggi e dell’ambiente in cui si muovono, il silenzio e il non detto prevalgono sulle parole, i fatti sono mostrati e mai troppo spiegati, e vanno interpretati partendo da indizi e sintomi. Vediamo Barbara, una dottoressa quarantenne elegante e algida che finisce a lavorare in un ospedale di provincia dopo essere stata in prigione per motivi che solo più tardi scopriremo. Il reparto è governato da André, bello e piacione anche se un filino in sovrappeso, anche lui con qualcosa di oscuro alle spalle, altrimenti non si spiegherebbe come mai uno tanto brillante sia finito in quel paesucolo. Intorno, figure e figurine del coro, una portinaia che sa tanto di spia della Stasi, un paio di sbirri che ogni tanto capitano in casa di Barbara a fare i controlli, una povera ragazza reclusa in una specie di riformatorio-lager che si fa ricoverare in ospedale per sfuggire alle corvée, un ragazzo con una contusione cerebrale. Succede poco, quasi niente, ma come sempre nel cinema della minaccia (vero Haneke?), categoria in cui questo film rientra a pieno titolo, noi avvertiamo che là fuori, dietro le quinte, là dove il nostro sguardo di spettatori non arriva, succede qualcosa, ed è la cosa più importante. Il medico ci prova con Barbara, ma lei, scostante e anche malmostosa com’è, non ne vuole sapere e gela ogni avance. C’è un uomo misterioso che furtivamente ogni tanto la viene a trovare, le lascia dei soldi, poi se ne va. Uno dell’Occidente, uno che sta al di là del Muro. Restare o scappare, e come scappare. Sono le domande che tacitamente tutti si fanno, se le fa anche Barbara. Che, poi verremo a sapere, in galera c’è andata proprio perché ha cercato di lsciare la DDR per raggiungere il suo uomo dall’altra parte. Il ritratto di un paese impoverito, sorvegliato, dove i delatori possono annidarsi ovunque, dove per chi sgarra e dissente non c’è pietà, è forte e convincente. Tanto più forte proprio perché Petzold sceglie di non alzare la voce e di non calcare la mano, praticando invece un cinema della sottrazione e della rarefazione. Cinema austero che tra le sue ascendenze ha, inevitabilmente, oltre all’obbligatorio Haneke, anche il binomio Dreyer e Bergman (vedendo le sequenze delle traversate in bicicletta di Barbara in una campagna dove l’unico rumore e l’unica voce è il vento, vien da pensare a Ordet). L’altra faccia, quella meno piacevole, di un film come questo è la bassa velocità, il ritmo blandissimo, una contemplatività che può diventare subito noia. Barbara richiede attenzione e pazienza, e se per una buona mezz’ora può spiazzare e irritare per le scarne informazioni che ci dà sui personaggi e lo stile scarnificato fino al quasi niente, poi si rivela man mano, si scopre sempre di più e alla fine il puzzle del racconto si compone perfettamente, ogni parte va al posto suo e tutte le risposte vengono date. Ottima costruzione e progressione drammaturgica, e un finale che tra Mar Baltico e corridoi d’ospedale qualche brivido (anche di commozione) ce lo fa venire.
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