Recensione: UN GIORNO DEVI ANDARE di Giorgio Diritti. Peccato, poteva essere un film grandissimo e invece

Fotografia Non ancora ApprovataUn giorno devi andare, regia di Giorgio Diritti. Con Jasmine Trinca, Anne Alvaro, Pia Engleberth, Sonia Gessner. Al cinema da giovedì 28 marzo 2013.01
Diritti è un regista unico nel nostro panorama italico, uno dei migliori. Un cinema, il suo, attratto da mondo degli ultimi, da isole etniche ai margini, che lui sa descrivere con partecipazione e rispetto. Stavolta ci racconta di una giovane donna italiana che, dopo un lutto, cerca di ritrovarsi in un altrove che è il Brasile amazzonico. Momenti straordinari, paesaggi sublimi. Ma il film è narrativamente debolissimo, poco strutturato. Il percorso della protagonista incerto e inconcludente. E aleggia un terzomondismo che impiomba tutto. Se il riferimento era Europa 51 di Rossellini, ebbene, qui siamo lontani. Voto 6 e mezzoFotografia Non ancora Approvata
Che peccato, un film che poteva essere grandissimo e invece, nonostante la sua indubbia nobiltà, le sue ottime intenzioni, nonostante lo sguardo rispettoso del suo regista su uomini e cose, non ce la fa e resta inchiodato, come impiombato. Diritti non è un autore qualunque, ci ha dato con Il vento fa il suo giro un film partecipe e insieme crudele e lucido, uno dei film migliori italiani degli anni Duemila, poi con L’uomo che verrà si è confermato con una prima parte formidabile (cadendo però nella seconda, dove si arrendeva vistosamente a certe convenzioni neoresistenziali). Amo il suo tocco pudico, quel suo raccontare in modo mai invadente persone ed esistenze, un tocco alla Olmi (che mi pare sia stato un suo riferimento) o, se vogliamo, alla De Sica, il migliore De Sica. Lo attraggono le comunità umane degli ultimi e dei perdenti, o le isole etniche ancora al riparo dal turbine di consumismi e globalizzazioni: il paese alpino separato dal mondo di Il vento fa il suo giro, il villaggio appenninico di L’uomo che verrà, adesso, in questo suo terzo lungo, i nuclei indios amazzonici lungo il grande Rio e i suoi affluenti e nelle baraccopoli di Manaus (Diritti ha detto in conferenza stampa che favela è termine dispregiativo, sicchè cercherò di non usarlo). Di questi tempi di becero anticlericalismo e corrive polemiche antivaticane fuori e dentro al cinema (vedi l’orrendo doc Mea maxima culpa dove, partendo dal caso dei preti pedofili, si fa di ogni erba un fascio da bruciare), lui non esita a mostrarci invece uomini e donne di chiesa dal volto buono che credono e fanno qualcosa per migliorare il mondo secondo i dettami della loro fede in Cristo, che pregano e insieme praticano opere di bene, che si isolano dal mondo per stare vicini a Dio oppure nel mondo si immergono per aiutare, cristianamente, chi sta peggio. Per tutti questi motivi il cinema, così civile e così poco urlato e così umano – ad altezza d’uomo – di Giorgio Diritti è necessario come il pane a questo paese a perenne rischio imbarbarimento.

Un giorno devi andare è un film che di difetti, soprattutto nella sua struttura drammaturgica, ne ha molti, ma che ha momenti alti che son corroboranti, rinfrescanti, per gli occhi, la mente, lo spirito. Mi riferisco alla figura di suor Franca la missionaria con la sua inesausta dedizione e la sua fattiva concretezza, mi riferisco al gruppo delle consorelle che pregano e lavorano in un qualche santuario alpino in mezzo alla neve. Per almeno quaranta minuti – e qui si entra nei limiti di questo pur notevole film – non capiamo cosa Un giorno devi andare sia davvero, non sappiamo quale sia l’asse narrativo e chi sia il (o la) protagonista. Amazzonia, oggi. La missionaria suor Franca risale il grande fiume su un barcone per visitare i villaggi cristiani indigeni neoconvertiti, ma anche per istruire e se necessario fornire assistenza medica. Con lei una giovane donna italiana, Augusta, di cui niente sappiamo, di cui vediamo solo la faccia corrucciata e turbata, e di cui solo molto più tardi scopriremo cosa l’abbia spinta fin lì. Narrativamente sospesa, senza un brandello di storia che prenda forma, questa prima parte ha un andamento tra il documentario antropologico e la contemplazione della natura, una natura ipnotica, potente e incombente (e sembra a momenti di rirovare qualcosa di Apocalypse Now o dei film amazzonici di Werner Herzog). Passaggi e paesaggi sublimi, ma – continui a chiederti – la storia dove sta? Finché, in mezzo a lentezze anche estenuanti, qualche frammento emerge e comincia a ricomporsi. Augusta ha perso il suo bambino mai nato, dopo quel fatto la sua vita si è rotta, il marito se n’è andato, lei è scappata via dall’Italia, dalla madre, dalla nonna che l’amano. È scappata ed è venuta qui, nel Brasile più profondo e oscuro, a dare una mano a suor Franca nella sua opera missionaria, spinta da un generico ma non per questo debole bisogno di fare qualcosa per gli altri, e, sembra di capire, motivata anche dalla sua fede cristiana (Diritti ce la suggerisce appena). Una fede che in Augusta prende la piega di un cristianesimo socialmente impegnato, a favore degli ultimi, dei più svantaggiati, nella quale si sentono echi della (non a caso sudamericana) teologia della liberazione. Per questo a un certo punto abbandona suor Franca, stentando a comprendere il significato di quell’opera di evangelizzazione che a momenti le pare prevaricazione culturale (ma intanto vediamo come siano gli evangelici in quelle terre a guadagnare sempre più spazio, a rubare fedeli alla Chiesa cattlica con una proposta religiosa più passionale e veemente, più ricca di segni e coinvolgimenti esteriori). Sente il bisogno di un impegno più diretto. A Manaus si installa in una baraccopoli, vivendo povera tra i poveri, cercando di installare loro il senso dei propri diritti e una dignità sociale che ancora non hanno, e mica per niente il regista ci mostra tra le mani di Augusta un libro di Simone Weil, colei che la sua fede di cristiana convertita andò a provarla nelle fabbriche operaie. Da missionaria a missionaria sociale. Ma anche questa scelta si rivelerà deludente. Gli abitanti della baraccopoli non resistono ai soldi e ai posti di lavoro che il governo ha loro offerto perché se ne vadano via da lì – l’area, dicono, sarà bonificata con nuovi insediamenti urbani – e si trasferiscono in un orrido, anonimo villaggio fatto di file di prefabbricati. L’imminente fine di quella comunità è per Augusta, che in quel vivere solidale aveva creduto, l’ennesimo smacco, l’ennesima sconfitta. Non le resta, ancora una volta, che andare via sul grande fiume.
Ora, delle cose belle e bellissime si è detto, passiamo adesso ai segni meno. La mancanza di un vero e convincente asse narrativo, innanzitutto. L’itinerario di Augusta è incerto, la descrizione della sua crisi, più che rispettosa, è cautelosa e poco incisiva e non entra mai nel profondo. Le poche parole con cui lei spiega e ci spiega il suo altalenante percorso suonano ovvie, retoriche, banali, o impregnate di un solidarismo risaputo o di mediocri psicologismi (“sono alla ricerca di me stessa e di qualcosa che abbia un senso” ecc. ecc.). Cosa cerca davvero Augusta? Cerca Dio? Se è così, non vediamo in lei i tratti perturbanti e insieme affascinanti dei folli di Dio, di coloro che si spogliano di tutto per trasformare se stessi in strumento e ricettacolo del Signore: da Francesco in poi. Non c’è mai un vero mettersi in gioco; se il modello è Simone Weil siamo sideralmente lontani. Ma siamo lontani anche dal film che mi pare sia il riferimento di questo, Europa 51 di Rossellini, dove una Ingrid Bergman meravigliosa e straziante si lasciava alle spalle, anche lei dopo la perdita di un figlio, il suo mondo borghese per immergersi francescanamente tra i derelitti. Finirà, incompresa, in manicomio. Ma in Un giorno devi andare non c’è mai quel pathos, non sentiamo mai l’abisso, l’estremo, il radicale. Augusta è un’eroina piccola piccola, la sua crisi e il suo itinerario interiore-esteriore non hanno mai vera grandezza. Tutto è esangue, la crisi come i tentativi di superarla. Si pensi all’ultima scena in riva al mare (che non rivelerò ovviamente), la peggiore di tutto il film, segnata da un sentimentalismo insopportabile e bolso. E ti dici: tutto qui? Giorgio Diritti era stato lucido fino alla spietatezza in Il vento fa il suo giro, stavolta non lo è, si lascia fregare dal terzomondismo e dal pauperismo, dai troppi sorrisi dei bambini e della gente semplice e buona. Anche se i suoi poveri, gli uomini e le donne dei villaggi amazzonici e delle baracche di Manaus, non sono sempre dei santi (sono spesso violenti, commettono reati anche turpi, come vendere bambini), il film lascia intendere che la colpa stia comunque nel denaro corruttore, nell’avidità dei ricchi e potenti. Si eccede con il culto dei misérables, anche se il tono resta sempre pacato e parco, senza esibizionismi e proclami ad alta voce. Lo sguardo di Diritti è certamente acuto, il film ha finezze che pochi in Italia possono eguagliare. Ma la narrazione latita e non va da nessuna parte, quasi due ore per dirci, in fondo, niente di Augusta. Il resto è sguardo su quello che un tempo si chiamava terzo mondo (ma si potrà ancora dire tale un Brasile in esplosiva crescita economica?), dipinto, nonostante le buonissime intenzioni, in modo alla fin fine convenzionale: secondo quella visione politicizzata, e come depurata e nobilitata, dell’esotismo che è, per l’appunto, il terzomondismo.

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