L’uomo che verrà, Rai 5, ore 23,16.
Grande sorpresa del cinema italiano di tre anni fa, un film dell’indipendente Giorgio Diritti (presentato anche al Festival di Roma) che ha colpito spettatori e addetti ai lavori per la sua diversità, e che ha avuto anche un un buonissimo esito al box-office. Maturo allievo di Olmi, Diritti aveva già conquistato un ristretto ma compatto manipolo di estimatori con il suo precedente Il vento fa il suo giro, crudele e per niente indulgente e politically correct racconto su un villaggio di cultura occitano d’alta quota in una valle del Piemonte. Per L’uomo che verrà alza il tiro e le ambizioni, e racconta – siamo sempre in un villaggio di montagna ma stavolta dell’Appennino bolognese – la strage nazista di Marzabotto nel suo prepararsi e nel suo farsi, vista attraverso gli occhi di una piccola comunità contadina. La prima parte, tutta in dialetto emiliano delle alture, è quasi un trattato antropologico sulla vita quotidiana, con una ricostruzione filologica delle abitudini e dei riti, ed è la migliore, la più olmiana e anche la più coraggiosa stilisticamente e linguisticamente. Quando poi nella seconda parte Diritti scende sul terreno della ricostruzione della strage nazista, il film sale di intensità emotiva ma cala in innovazioone e sperimentazione, diventando più prevedibile e percorrendo solchi storiografici fin troppo collaudati e politicamente corretti. Lo sguardo dal basso sulla Grande Storia riesce a metà, non la riscrive davvero, non mette in discussione certezze, totem e tabù e finisce inesorabilmente, pur se nobilmente, nell’agiografico. Diritti accenna ai dissensi dei contadini anche verso certe frange partigiane, ma non va oltre qualche prudentissima inquadratura e qualche frase sommessa. Ma il film, pur non risolvendo i suoi squilibri interni, resta un risultato alto e un’opera a parte – fuori dalla medietà – del nostro cinema. Non al livello di questo, e nemmeno di Il vento fa il suo giro, il terzo e recentissimo film di Giorgio Diritti, Un giorno devi andare.
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