Grazie zia, di Salvatore Samperi. Su Iris alle ore 11,43.
Salvatore Samperi è un autore del nostro cinema che andrà pur riconsiderato, prima o poi. Espulso dalla nostra critica perbene fin dai primi anni Settanta dall’olimpo degli autori di serie A, è da considerarsi un outsider, un irregolare che ha compiuto un tragitto di rilievo nel nostro sistema-cinema lasciando una traccia non debole, di volta in volta copiando ma soprattutto inventando generi (vedi Malizia), veleggiando tra cinema politico-engagé e B-movies. Quello che io preferisco è il primissimo S., il contestatore sessantottino che attacca i tabù borghesi e le belle famiglie con i loro ipocriti equilibri, il S. dunque di questo magnifico Grazie zia e poi, in rapida sequenza, di Cuore di mamma (1969) e Uccidete il vitello grasso e arrostitelo (1970). Non che oggi condivida quel cinema, quell’attacco un po’ scemo e di sicuro datatissimo e ridicolo alle presunte ignominie borghesi, e ancora meno condivido il belluino furore ideologico che animava quel tipo di critica cieca, sono però convinto che la trilogia samperiana ci restituisca come pochi altri film italiani, e non solo italiani, la temperie, il clima, gli sbandamenti di un periodo cruciale della nostra storia e delle nostre vite. Grazie zia esce nel 1968, è nel programma di Cannes di quell’anno, solo che il festival viene poi sospeso per la contestazione interna degli autori e attori e esterna dei manifestanti (e rimane indimenticabile quell’immagine di Geraldine Chaplin, in concorso con Peppermint Frappé di Carlos Saura, che chiude il sipario e fa saltare la proiezione decretando lo stop definitivo). Lo adorai, quando lo vidi, e mi parve straordinario. A rivederlo oggi mi pare meno straordinario, ma sempre importante. Rappresenta, Grazie zia, molto bene l’altra faccia del Sessantotto, che non fu solo manifestazioni e furibondi scontri tra studenti e polizia, e bandiere rosse e neo-veteromarxismi, ma anche frattura culturale, kulturkrieg, rupture nei comportamenti e nei valori. Anche messa sotto accusa della repressione sessuale e della ipocrisia familiar-borghese e affermazione di una nuova sessualità (nuova davvero?) libera e selvaggia oltre ogni tabù. Aspetto meno palesemente politico, ma che ha inciso nel profondo e avrebbe portato a quella deregolamentazione di massa dei comportamenti sessuali cui oggi assistiamo. Grazie zia è datato, ma di quel momento è un referto fedele. Vero, come si disse allora e si continua a scrivere, che Samperi prese molto dal di poco precedente e più rigoroso I pugni in tasca di Marco Bellocchio, a partire dall’interprete principale Lou Castel. Ma va giù molto più pesante con il sesso e il morboso, esplicitando e dilatando quello che in Bellocchio era accennato. Alvise (Lou Castel), figlio della ricca e provinciale borghesia veneta, è un ribelle anarcoide senza troppe cause, se non l’incazzatura e la rabbia contro i suoi, rabbie che l’hanno portato a chiamarsi fuori dal mondo (dal mondo degli odiati genitori) e a fingersi paraplegico. Si fa carico di lui la zia materna, Lea, che lo accoglie nella sua villa settecentesca sperando di restituirlo a una parvenza di normalità. Non sarà così. Il demoniaco ribelle avvilupperà la zia in un intrico di ricatti psicologici, la seduce, la attira nel proprio gorgo, la riduce a povera cosa nelle sua mani, la umilia. Ha un obiettivo in testa, e manipolando la zia e riducendola a sua schiava e suo strumento, riuscirà a raggiungerlo. Se la polemica antiborghese oggi è caduca e perfino insopportabile, resta, notevolissimo e ancora agghiacciante, il gioco carnefice-vittima, restano la partita crudele di sadismi e masochismi, la discesa negli abissi, l’inferno a due. Qualcosa che ricorda quel capolavoro che è Il servo di Losey su sceneggiatura di Harold Pinter. Forse non c’è molto di nuovo nel film di Samperi, però lui ha l’abilità e la furbizia di trasformare quei temi alti in spettacolo, anche – ebbene sì – calcando la mano sull’erotismo più plateale (e sull’afrore dell’incesto) a uso delle masse. Fu un successo clamoroso al box-office e lanciò alla grande Lisa Gastoni, la zia del titolo, sexy e dolente, carnale e spaurita, davvero magnifica e indimenticabile, in una di quelle interpretazioni che segnano una carriera e una vita. Gastoni con questo film è entrata nell’immaginario italico e non ci è più uscita, installandosi come una delle donne più belle che abbiano solcato i nostri schermi, insieme a Lucia Bosè, Silvana Mangano e poche altre.
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