Recensione: PASSIONI E DESIDERI, affresco multistorie di troppe ambizioni e molta confusione

91725_galPassioni e desideri (360), un film di Fernando Meirelles. Sceneggiatura di Peter Morgan. Con Anthony Hopkins, Jude Law, Rachel Weisz, Moritz Bleibtreu.91727_gal
Orrendo titolo italiano dell’originale, e più pertinente, 360. Affresco multistorie genere Babel in cui più personaggi si sfiorano, collidono, si incrociano dando vita a trame e sottotrame. Il modello dichiarato è il Girotondo di Schnitzler, ma qui la struttura narrativa è confusa, le storie non granché interessanti, i risultati deludenti nonostante l’evidente ambizione di restituire in cinema i giochi del caso, del caos e della necessità. Voto 582021_gal
Ma cos’è successo a Peter Morgan? Sceneggiatore capace come pochi di drammatizzare il reale, comprese cronaca e storia, ha raggiunto il vertice della professione con The Queen, Frost/Nixon e I due presidenti, ritmo serratissimo, dialoghi scintillanti e all’occorrenza cattivi, lucidi e impietosi, abilità somma nel rileggere e riproporre credibilissimamente, rendendoli più veri del vero, protagonisti degli ultimi nostri decenni come la regina Elisabetta, Nixon, Blair, Clinton. Poi, chissà perché, ha deciso di abbandonare quel registro para-documentaristico e fortemente ancorato al reale per inoltrarsi in affreschi multificali e multistorie dove più vite si intersecano, collidono, si influenzano l’un l’altra, con l’ambizione evidente di restituire i giochi del destino, del caso e della necessità. E ha toppato clamorosamente. Suo difatti l’imbarazzante script di Herefter, con quell’andare avanti e indietro di più persone tra vita e oltre-vita, con pensosi interrogativi su cosa ci sia al di là e al di qua, un bric-à-brac new age, un imbarazzante caso di kitsch intellettuale che neanche l’ottimo Clint Eastwood alla regia è riuscito a salvare. Adesso è arrivato nei cinema italiani, con il solito ritardo, 360 (sciaguratamente ribattezzato con l’anodino titolo Passioni e desideri), in cui Morgan mette al servizio del regista brasiliano Fernando Meirelles – quello di City of God – un’altra trama a più storie che si toccano tangenzialmente, con personaggi che si passano il testimone narrativo, in una staffetta circolare che esplicitamente si rifà alla Ronde di Schnitzler (e al film che ne trasse Max Ophüls). Percorso a 360 gradi appunto, dove si attraversa il mondo (Bratislava, Parigi, Londra, Denver ecc.) per tornare alla fine al punto di partenza. Progetto affascinante, niente da dire (a me i giochi cerebral-narrativi in cui la struttura e le geometrie prevalgono e condizionano gli stessi contenuti son sempre piaciuti parecchio), solo che anche stavolta lo sceneggiatore inglese non ci azzecca e manca i suoi bersagli. È che in questi casi o si riesce a mettere in piedi un congegno perfettamente funzionante, e anche terso, trasparente nei suoi sviluppi ed effetti, oppure si affonda. Passioni e desideri non ha purtroppo la meravigliosa semplicità e linearità del suo modello schnitzleriano, là si passava con la massima naturalezza e senza il minimo sforzo da un personaggio all’altro, da una storia all’altra, qui invece tutto è molto ingarbugliato, l’andamento è tutt’altro che lineare, il disegno struttural-geometrico approssimativo. I personaggi vengono presi, abbandonati e ripresi, la sequenza spaziotemporale è frantumata e sconnessa, i punti di contatto tra una storia e l’altra ci sono come no (sennò lo stesso progetto verrebbe meno), ma li scopriamo faticosamente e quasi casualmente. Forse Peter Morgan (è lui il vero autore del film, mica il regista, che si limita a impaginare diligentemente e senza invenzioni) voleva darci il senso di un mondo in cui tutti siamo interconnessi – i famosi sei gradi e anche meno di separazione -, in cui siamo vicini e nello stesso tempo irrimediabilmente lontani, estranei, anime e corpi alla deriva in un flusso caotico di cose ed eventi. La rinuncia a un ordine narrativo intellegibile e coerente però finisce solo col comunicarci, più che il caos del nostro universo esistenziale, solo confusione, ed è una confusione frustrante. Ovviamente, come in Schnitzler, il film mescola persone assai diverse tra loro e perfino opposte – per carattere, per appartenenza sociale, per background e prospettive – e dunque via con il ricco e il povero, il vecchio e il giovane, l’innamorato e l’oggetto dell’amore. Una ragazza slovacca entra in un giro di prostituzione, un affluente manager londinese a Bratislava per un contratto fissa un appuntamento con lei, poi lo diserta. Torna a Londra, dalla moglie, la quale ha un giovane amante brasiliano, il quale ha una ragazza che stanca dei suoi tradimenti lo molla. Lei vuol tornare a Rio e, facendo scalo in Colorado, conosce un signore inglese in cerca della giovane figlia scomparsa da anni. Un mite dentista parigino intanto si strugge d’amore per una donna che non lo ama (è la moglie del manager). E conosciamo anche un bravo ragazzo umiliato, usato e offeso dal suo arrogante padrone, un oligarca russo dalla dubbia moralità e dai loschi affari: il quale si fa portare in camera una prostituta, la ragazza che abbiamo visto all’inizio. Tutto c’entra con tutto, tout se tient, i nostri destini signoramia sono uniti eppure siamo monadi non comunicanti, ci sfioriamo e raramente riusciamo davvero a compenetrarci. L’inizio è la fine, la fine è l’inizio. Questo è il mondo, questa è la vita. In film come questi si rischia facile di cadere nel filosofeggiare spicciolo, nella weltanschauung da bar o da vagone ferroviario. Nonostante la classe di Peter Morgan, e qualche bel personaggio (quello del bodyguard per esempio), il film non decolla mai, appesantito da troppe convenzioni (la storia matrimoniale di Jude Law e Rachel Weisz), da sottotrame di scarso interesse (i rimbrotti e rinfacci tra la ragazza brasiliana e il suo boyfriend) e, soprattutto, da un procedere confuso e affannoso. Per fortuna sua e nostra Peter Morgan torna a raccontare nel suo prossimo film, Rush, personaggi del vicino passato, come già con i vari Nixon e Blair. Stavolta però niente politico, e invece il gran teatro della Formula Uno e la storica rivalità che oppose in pista Nicki Lauda a James Hunt. Dirige il collaudato Ron Howard, e qualche sito americano dà Rush in pole position per Venezia e Toronto.

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