Il dottor Zivago, Iris, ore 21,05.
Ah sì, capolavoro. Capolavoro vero. Lasciate perdere i critici bon ton che scrissero e continuano a scrivere di questo film con supponenza e acredine. Il dottor Zivago fu subito adottato allora (anno 1965!) dal pubblico di tutto il mondo che lo divorò, e adorò, a dispetto di ogni recensione superciliosa, e aveva ragione il pubblico. Questo, signori, è puro cinema-spettacolo. Uno dei più grandi successi popolari di sempre, e non si sta mica esagerando. L’ho amato alla follia, e continuo ad amarlo, anche nel suo formidabile kitsch, nel suo spudorato estremismo sentimentale, nel suo uso smodato e anche pompier di una musica ruffiana e irresistibile. Però, che scene di massa, e che senso della Storia (ebbene sì, con la maiuscola). David Lean, in quel momento proveniente dalla trionfale riuscita di Lawrence d’Arabia, accetta la proposta di Carlo Ponti di girare un film tratto dal bestseller del semi-dissidente russo Boris Pasternak (il manoscritto, giova ricordarlo, era stato clandestinamente portato fuori dall’Urss e pubblicato da Giangiacomo Feltrinelli). In realtà, Ponti pensava a un vehicle per Sofia Loren, ma poi le cose presero (fortunatamente) un’altra piega, e come protagonista venne scelta quell’incanto di donna e attrice che era, ed è, Julie Christie (occhio, la potrete rivedere dal 20 dicembre prossimo al cinema nell’ultimo film di Robert Redford, bruttarello a dir la verità, La regola del silenzio/The Company You Keep). Film epico come pochi, di un regista naturalmente epico come Lean, uno che ha sempre pensato e girato in grande, uno per cui anche un dettaglio, un minimo fatto privato, diventava storia, magniloquenza, affresco, grande narrazione, un talento che pochi oltre a lui hanno avuto, penso a Eizenstein, John Ford, Sergio Leone. A ipnotizzare qui è la capacità di intrecciare le altalenanti vicende private dei due amanti protagonisti Yuri Zivago e Lara, agli avvenimenti che cambiarono la Russia e il mondo, quelli che vanno dalla rivolta antizarista e successiva repressione del 1905 alla grande guerra mondiale alla rivoluzione bolscevica del 1917, e continuando con la guerra civile tra rossi e bianchi, la guerra interna tra fazioni comuniste con sconfitta del trotzkismo, le purghe staliniane su scala di massa. Da togliere il fiato. Intanto Yuri e Lara si conoscono, si sposano con altri, si ritrovano, si amano, si riperdono, forse si ritrovano nell’ultima, memorabile sequenza. Immenso. Di una potenza e grandeur ancora in grado di impressionare lo smaliziato spettatore di oggi. Tre ore di cinema come non se ne fanno più, senza effetti speciali ma potenziando al massimo ogni elemento narrativo e scenografico. Paesaggi così maestosi da darti la vertigine dell’assoluto. Una macchina narrativa (sceneggiatura di Robert Bolt) di implacabile efficienza che, letteralmente, travolge chi segue e guarda. Una musica, il Tema di Lara (by Maurice Jarre) tra le più famose che il cinema ci abbia mai dato. Lean ebbe occhio e coraggio nello scegliere il cast. Se Julie Christie con questo film sarebbe diventata una superstar, l’egiziano Omar Sharif – che Lean aveva utilizzato già in Lawrence d’Arabia in una parte per così dire etnica – diventa col suo Zivago un sex symbol globale, seducendo platee femminili (e anche in parte maschili) con il suo languore e l’occhio umido. Il resto del cast è da urlo: Rod Steiger come villain, Tom Courtenay come simil-Trotzky, Rita Tushingam, Alec Guinness. E Geraldine Chaplin quale incantevole Tonya, la moglie (tradita) di Yuri. Naturalmente non fu possibile girare nemmeno una scena in Unione Sovietica, si ripiegò sulla Spagna e, per gli esterni innevati, su Finlandia e Canada, con risultati eccellenti. La scena che più mi è rimasta impressa: la marcia con fanfare dei ribelli stroncata dall’esercito zarista, e Yuri che assiste sgomento alla finestra.
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