Cannes 2013/ Quinzaine. THE SELFISH GIANT (recensione): due ragazzini un un’Inghilterra livida e infelice, gran film di una tosta regista di nome Clio Barnard

selfish-giantThe Selfish Giant (Il gigante egoista), regia di Clio Barnard. Con Conner Chapman, Shaun Thomas, Sean Gilder, Siobhan Finneran, Steve Evets, Rebecca Manley. GB 2013. Presentato a La Quinzaine des Réalisateurs a Cannes 2013. Vincitore del premio Label Europa Cinemas. Adesso selezionato per il premio Lux del parlamento europeo.The_Selfish_Giant_photo_agatha_a._nitecka_1
Dopo Andrea Arnold (Fish Tank) e Lynn Ramsey (A proposito di Kevin), arriva un’altra tostissima signora del cinema inglese. Si chiama Clio Barnard ed ha presentato alla Quinzaine des Réalisateurs a Cannes questo duro, tostissimo The Selfish Giant, due ragazzini in una Inghiterra degradata, livida, di massima infelicità e zero prospettive di riscatto. Una storia di neodickensiana miseria che la regista racconta con impassibilità e sguardo fermo per almeno due terzi, per poi purtroppo cedere al buonismo nella parte finale. Ma Il gigante egoista resta lo stesso un bel risultato. Voto 7 e mezzo

la refgista Clio Barnard a Cannes con i due ragazzini di 'The Selfish Giant'

la regista Clio Barnard a Cannes con i due ragazzini di ‘The Selfish Giant’

Sono brave e soprattutto sono toste, le signore registe del recente cinema inglese. Andrea Arnold è forse la migliore allieva di Ken Loach, di cui riprende la lezione, ma incrudelendo personaggi e ambienti, penso a Fish Tank e alla sua versione barbarica e tetra, implacabile e antisentimentale di Cime tempestose. E poi Lynn Ramsey, artista e autrice di cinema, che un paio di anni fa con A proposito di Kevin ci ha, diciamolo, sconvolto, con quel suo ragazzino massacratore di compagni di scuola per pura intima cattiveria, per marciume genetico, per amore del Male. Signore che puntano allo stomaco e alle viscere dello spettatore, cui non fanno sconti, anzi mosse dal proposito di turbare, inquietare e non conciliare. Signore che, attraverso le loro opere, del femminile – e della cosiddetta creatività femminile – esprimono la forza terragna e tellurica, l’oscura energia fondatrice e generatrice e anche distruttrice, più che gli sdilinquimenti e le retoriche rassicuranti cui ci ha abituato (e che ci ha imposto) il femminismo politically correct. Adesso a loro si aggiunge, a formare un formidabile trio, Clio Barnard, che lo scorso maggio ha portato alla Quinzaine a Cannes questo suo The Selfish Giant, un colpo assestato nella pancia del festivaliero, uscito alla fine dalla rassegna con il premio Label Europa Cinemas (network continentale di sale con una programmazione d’autore), e prontamente acquistato da un bel po’ di paesi, l’Italia no, al momento non mi risulta. Qualcuno l’ha comunque potuto vedere nella rassegna milanese Cannes e dintorni, anche se è rimasto un po’ oscurato da altri titoli di maggiore e più immediato appeal, come La vie d’Adèle o Le passé.
Siamo, come nel caso di Andrea Arnold, in una Inghilterra infelicissima e degradata da stringere il cuore, suburbia e lividi orizzonti, e vite di povera gente, vite di miseria materiale e, come dicevan le zie, di miseria morale, che è la peggiore (ma le due van spesso insieme e si intensificano vicendevolmente). Bambini che dovrebbero star tranquili e invece sono contaminati dai problemi dei loro genitori, padri violenti e alcolisti e senza mai un lavoro, madri depresse e/o disperate che non san più come mettere le pezze alle loro famiglie smembrate, precarie, divelte. Che poi, signori, siam sempre a Charles Dickens, è quello l’eterno paradigma di ogni narrazione inglese che, al cinema o in letteratura o a teatro, ci parli di ragazzini immersi nel massimo disagio, sempre a Oliver Twist e David Copperfield e Grandi speranze siamo. The Selfish Giant è Dickens aggiornato al nulla, al vuoto, al nichilismo odierno, e vedendolo non si sa se piangere o incazzarsi o rassegnarsi. Clio Barnard cita un altro monumento delle patrie lettere, Oscar Wilde; da un suo racconto per l’infanzia riprende difatti il titolo, Il gigante egoista, e il gigante che terrorizza e attrae i bambini in quel racconto wildiano qua è forse la maestosa centrale elettrica che domina il paesaggio in cui si muovono i personaggi, mostro pericoloso e fascinoso, potenziale occasione di arricchimento con tutto quel rame da rubare e insieme letale minaccia. Chi tocca i fili muore, letteralmente. Perché i due ragazzini protagonisti del film, Arbor, 13 anni, e Swifty, un anno di più, hanno mollato la scuola e adesso si son messi al servizio di un torvo ricettatore di ferraglie di nome Kitten, e occasionalmente di metalli più lucrosi, come il rame per l’appunto. E dunque i nostri due percorrono ogni giorno con un carretto le lande desolate intorno al loro paesello in cerca di rifiuti o qualcosa da rubare e rivendere a quell’orco che li usa e li sfrutta, e la centrale elettrica con i suoi cavi arerei e interrati ovunque sta lì a tentarli, a ricordare loro, sempre, quanti soldi potrebbero tirar su se avessero le palle dell’impresa. Perché fanno quella vita d’inferno Arbor, il più piccolo ma anche il più deciso dei due, e Swift? Perché a scuola non vanno più, Arbor è stato espulso da una preside ormai esasperata dalla sua ingovernabilità, dalla riottosità, dal suo insultare insegnanti e compagni, e Swift è stato convinto da Arbor a mollare anche lui. È che vogliono sentirsi liberi, capaci di badare a se stessi e contribuire ai bilanci sempre disastrati delle loro miserande famiglie. Swift oltretutto è di etnia gitana (sì, i gypsies ci sono anche in Inghiterra, come si era visto anche in Snatch di Guy Richie), i suoi sono considerati inferiori anche da chi sta al fondo della scala sociale, ultimi tra gli ultimi, disprezzati e mai metabolizzati dall’ambiente intorno. Ecco, The Selfish Giant questo è: la cronaca, restituitaci senza il minimo cedimento sentimentale, anzi con un freddezza di osservazione tra il fenomenologico e l’antropologico, di due esistenze poco più che infantili fuori da ogni controllo sociale e familiare e già alla deriva. Già nel lurido e nel marcio, senza chance di riscatto. La bravura di Clio Barnard sta nello stare alla larga da ogni giustificazonismo social-sociologico e da ogni predica ideologicamente corretta. Il girovagare di Arbor e Swift, il loro progressivo e ineluttabile entrare nell’illegalità e nel piccolo crimine, vengono registrati e mostrati con impassibilità e perfino durezza, la regista non fa nulla nemmeno per renderceli simpatici e farci parteggiare per loro. Arbor, soprattutto, è un bambino cui tireresti volentieri più di uno schiaffo, tanto è provocatorio e urtante a scuola, in famiglia, tanto è distruttivo verso gli altri e verso di sè nella sua cocciuta scelta di buttarsi sul furto, di darsi a bravate pericolose. Con un che anche di malvagio, perfino luciferino, che ricorda vagamente in certi momenti il Kevin del film di Lynn Ramsey. Ne esce un film agghiacciante e disturbante, commovente nel senso che ti smuove e fa breccia nella tua indifferenza, che si pone e ti pone parecchie questioni senza dare comode risposte. Sarebbe potuto essere un grandissimo risultato, se solo Clio Barnard avesse tenuto duro fino alla fine. Purtroppo, da quando succede il fattaccio drammatico che dà la scossa a tutto il flm (e a noi spettatori), quasi a pentirsi dell’impassibilità tenuta fino a quel momento, vira di colpo verso un approccio buonista, e l’ultima parte è consolatoria e francamente poco plausibile (mi riferisco soprattutto alla reazione dell’orco Kitten). Come se la pur coraggiosissima Barnard avesse avuto paura a guardare fino in fondo l’abisso sull’orolo del quale ci aveva condotto per almeno due terzi del suo Gigante egoista.

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