Pain & Gain – Muscoli e denaro, un film di Michael Bay. Con Mark Wahlberg, Dwayne Johnson, Anthony Mackie, Ed Harris, Bar Paly.
Nella Miami anni ’90, tre bodybuilder si mettono in testa di arricchirsi rapendo un tizio dai molti soldi. Niente andrà come previsto. Ispirata a fatti realmente accaduti, una commedia nerissima con tre assassini deficienti e incapaci. Solo che alla regia c’è Michael Bay, non proprio un maestro di ironia e leggerezza. Il risultato è uno dei film più trucidi da molto in tempo in qua. E però a modo suo anche diverso, coraggioso. Non mainstream, ecco. Voto 6+
Uno degli oggetti cinematografici più spiazzanti degli ultimi tempi. Un alieno. Un ogm. Come altro definire questo Pain & Gain? Che è una black comedy alla Coen Bros. con tanto di assassini deficienti e incapaci (Blood Simple, Fargo), però girata da uno dei registi meno fini in circolazione, più naturalmente portati al fracassone e al grossolano, insomma il Michael Bay di tutti i Transformers: 1,2,3 e prossimamente il 4. Come se, non so, Nanni Moretti si mettesse a girare un wuxiapian, Tarantino un remake del Diario di un curato di campagna di Bresson. Una cosa contronatura, ecco. Che non si fa. Però lui, Michael Bay, l’ha fatta, e tuttosommato ha fatto anche bene. Magari ce ne fossero come lui, anche più talentuosi intendo, con la stessa voglia di rischiare e mettersi in gioco e dare un calcio alla propria immagine (e anche al proprio status). Certo, di fronte alla ribalderia di Pain & Gain si resta esterrefatti, che quasi non si crede a quel che si vede, da tanto si va sul trucido trucidissimo, oltre ogni immaginazione. C’è perfino un alluce che passa di mano in mano e va a finire in pasto ai pesci. Per carità, con le commedie nere ne abbiame viste di ogni, però per metterle insieme bisogna averci la mano, ci vuole una certa leggerezza per far digerire a noi spettatori l’indigeribile, che è per l’appunto la qualità di cui il nostro Bay è assolutamente carente. Perciò preparatevi, e lasciate a casa le anime sensibili e pudibonde, chè non sopporterebbero. Dunque: siamo a Miami, teatro di ogni eccesso sgargiante, vedi l’immortale Scarface di De Palma (che trapela anche qui) o il più recente Spring Breakers. Sarà per via del clima surriscaldato e già tropicale, sarà per via del narcotraffico e della troppa coca in circolazione, sarà per le spiagge che invitano al narcisismo di massa, fatto sta che Miami si è configurata man mano nel cinema come il teatro delle esistenze più esagitate e delle esperienze più estreme, tantopiù se c’è di mezzo il corpo. Corpo che qui si fa subito teatro, spettacolo, esibizione ed esibizionismo. Questo film riprende la storia vera, anche se si fa fatica a crederci, della cosiddetta Sun Gym Gang, una banda di sderenati bodybuilder che negli anni Novanta, tra un pompaggio e l’altro e indigestioni di steroidi, mise a segno una catena di nefandezze, con tanto di delitti sanguinosissimi e crudelissimi.
Tutto – il film, voglio dire – ruota intorno a Daniel Lugo, fisico ovviamente scultoreo (è un Mark Wahlberg ancora più pompato che in The Fighter), personal trainer assai capace e ricercato della Sun Gym, palestra da lui trasformata nella più cool e ricca in città. Solo che ha la testa irrimediabilmente intossicata dalla versione perversa dell’american dream, che l’importante nella vita è esser vincenti, arrivare prima degli altri e metterglielo in culo. Sicchè quando gli capita tra le mani un cliente che ha fatto i soldi con salse e hamburger gli vien la pensata, criminale ma inesorabilmente scema, di rapirlo, torturarlo, costringerlo a intestargli i suoi beni. Servendogli dei complici, imbarca nell’impresa un altro bodybuilder grosso almeno il doppio di lui – è Dwayne The Rock Johnson difatti – un tipo appena uscito di galera, non proprio sveglissimo, con un suo penchant mistico-religioso per cui è sempre lì a torturarsi per peccati veri o presunti e a chiedere perdono a Dio. Oltretutto ospitato in una canonica da un prete che gli metterà le mani e cercherà di portarselo a letto. Il terzo è un altro trainer della famigerata palestra, un afro-americano la cui potenza muscolare è inversamente proporzionale a quella sessuale, tant’è che finisce in terapia di riabilitazione penica, e sarà subito amore con l’assistente del dottore. Ecco, lo sciagurato trio è pronto a passare all’azione e combinar disastri. Solo che, i Coen insegnano e la cronaca nera e vera anche di più, niente andrà come previsto. Il rapito nonostante le peggio torture (che Bay ci mostra in ogni dettaglio, fino alla testa schiacciata dalla macchina) resiste e resiste. Finirà col firmarle, le maledette carte, i nostri tre si ritroveranno pieni di soldi. Solo che il destino è in agguato, e pagheranno caro pagheranno tutto. Questa storia già truce di suo ci viene raccontata nel modo più trucido, truculento e trucibaldo che si possa immaginare. I tre sono degli animali senza più un neurone funzionante, figuriamoci la morale (solo il gigantesco Paul Doyle/Dwayne Johnson per via del suo trip religioso ogni tanto ha qualche perplessità, peraltro subito fugata), di cui non c’è più la minima traccia, sempre che in quei tre abbia precedentemente dimorato. Siamo al grado zero dell’umanità, ai confini col bestiale (con tutto il rispetto per le bestie), dove ogni pietà l’è morta e ogni barlume di coscienza pure. Nella sua rozzezza, nella sua grossolanità, Bay riesce però a restituire il clima ebbro di quegli anni, di quel mondo, di quegli ambienti strapieni di ormoni e cocaina, dove il corpo è tutto e il resto niente, dove si vive in uno stato perenne di alterazione e allucinazione ed esaltazione, dove si pensa solo al cazzo, alla figa e ai soldi, e son questi i momenti migliori di Pain & Gain, quelli che lo salvano e lo rendono non del tutto inutile. Quasi una ricostruzione filologica degli anni scemi e più scemi della nostra (anzi loro) vita. Con una spacconeria che ricorda certo Oliver Stone. Chiaro che si sfiora molto spesso e molto pericolosamente la pornografia della violenza e del sangue: stigmatizzando nefandezze, nequizie e infamie, però le si mostra, le si esibisce, le si spettacolarizza e glamourizza. Con la differenza che Bay non è Harmony Korine, e questo non è Spring Breakers, e l’eccitazione, la violenza, lo sballo non riescono a farsi visione, forma, stile, bellezza. Però questo film così irritante merita di non essere bocciato, perché ha il coraggio del non piacionismo, perché si mette in gioco, perché, vivaddio, non è così medio-mainstream. Tant’è vero che gli spettatori d’America son rimasti sconcertati e al box office han portato solo 50 milioni di dollari, pochi per un impegno produttivo così. Onore anche a due star come Mark Wahlberg e Dwayne Johnson che si son buttati in un’impresa difficile. Il primo è bravo, ma antipatico come sempre e anche al di là dell’odiosità del suo character, il secondo è incredibilmente il migliore, riuscendo a costruire il suo personaggio di gigante tonto con una certa finezza e anche ironia. E chi mai avrebbe pensato che ne sarebbe stato capace.
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