L’amico di famiglia, Iris, ore 21,01.
Piaccia o meno, Paolo Sorrentino è oggi uno dei nistri autori grandi, insieme a Matteo Garrone e a qualche nome non ancora domo delle precedenti generazioni. Presentato a Cannes 2006 (il festival di Gilles Jacob-Thierry Frémaux gli vuol bene, si sa, e l’ultimo La grande bellezza ne è l’ulteriore riprova), L’amico di famiglia èil film che ha lanciato nell’orbita degli autori di alta gamma il suo registao. Un film di Sorrentino, alla Sorrentino, nel bene e nel male. Anche qui come sempre un protagonista-mostro sociale, e anche di ripugnante fisiognomica, un usuraio settantenne dell’Agro Pontino, e già questo. Intorno a Geremia, questo il suo biblico nome, una corte dei miracoli di umanità repellente e degradata, come in un Brutti, sporchi e cattivi di Scola revisionato e se possibile ancora più lurido (mi sbaglierò, ma mi pare proprio che quello sia un film di riferimento del nostro). C’è l’amico Gino malato d’America (Fabrizio Benivoiglia), c’è l’indebitato che spinge la figlia prossima sposa (Laura Chiatti, una bellezza) a prostituirsi all’usuraio. Mentre tutti intessono trame, tradiscono, si vendono. Scarsa attenzione agli sviluppi narativi e molta di più alla messa a punto di caratteri deformi, nel corpo e nell’anima. Sorrentino, insomma. Talento enorme, forse il maggiore del nostro cinema di oggi, solo un po’ troppo autoreferenziale e prigioniero delle proprie ossessioni, e pure dei propri manierismi.
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