Il falò delle vanità, Iris, ore 21,00.
Un film sbagliato di Brian De Palma resta pur sempre un film di De Palma, cioè di uno dei maggiori virtuosi della macchina da presa che cinema ci abbia dato negli ultimi decenni. Intendo, uno che sa girare con maestria assoluta, carrelli, dolly, panoramiche, riprese aeree e piani sequenza interminabili, il tutto raccordato da un editing senza falle. Solo Scorsese gli sta alla pari, e guardarsi un film di De Palma è assistere a una lezione sul campo di tecnica e di grammatica e sintassi in cinema. In più c’è naturalmente la sua abilità a creare climi di minaccia e di sospensione, sulle tracce del suo riconosciuto e venerato maestro Hitchcock. Questo Il falò delle vanità del 1990 è la trasposizione filmica di uno dei grandi best seller anni Ottanta firmato Tom Wolfe. Romanzo epocale nel senso più proprio, che nel realismo implacabile e anche sardonico di Wolfe redige il referto della hybris di quel decennio segnato dalla voglia pazza di successo, denaro, sesso, lusso, consumi selvaggi. Solo che De Palma sbaglia parecchio, a partire dalla scelta di Tom Hanks, improbabile come incarnazione del figaccionismo edonista reaganiano (è il suo ruolo fisicamente, fisiognomicamente più scentrato insieme a quello del Robert Langdon del Codice da Vinci e Angeli e demoni). Sceglie poi chissà perché un registro grottesco che tradisce e rischia di depotenziare, buttandola in burla, la carica demolitiva e anche acre, moralistica, del libro originario. La storia suona come apologo esemplare. Un reuccio della speculazione di Wall Street di nome Sherman McCoy, simbolo di quegli anni scatenati e golosi (ma nei decenni successivi in fatto di finanza ne avremmo viste anche di peggio), mentre è in macchina a Manhattan con la sua amante Maria imbocca lo svincolo sbagliato e si ritrova nel Bronx, allora ricettacolo di ogni degrado metropolitano. Incomincia l’incubo, con la macchinona bloccata e i nostri assaliti da un paio di delinquentacci da strada in puro Bronx style. Succederà il dramma: una brutta storia su cui si butteranno i media, sbranando McCoy. La narrazione gioca sugli eterni dualismi centro-periferia, ricchi-poveri, per farsi racconto morale sulla superbia, l’arroganza, il culto del denaro e dell’esteriore. Wolfe profeticamente coglie le distorsioni sia del mondo della finanza che quello dei media, ma De Palma non sa tradurlo sullo schermo, servendoci invece un film quasi parodistico con venature da black comedy. Maria è una Melanie Griffith ancora nella fascia alta dello star system hollywodiano, il giornalista pescecane è Bruce Willis. Molto atteso, Il falò delle vanità secondo De Palma fu un flop colossale che sarebbe costato parecchio al suo autore. Da rivedere come prova del suo talento di puro metteur en scène, e occhio ai piani sequenza (ne ricordo, ma potrei ricordare male, uno lunghissimo, sbalorditivo su Bruce Willis).
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