La niña santa, La effe (canale 50 dt), ore 22,30.
In una serata strapiena di film belli e anche importanti, questo è in my opinion quello che non bisogna proprio perdere. Secondo film – siamo nel 2004 – di una delle più talentuose registe in circolazione oggi nel sistema cinema, l’argentina Lucrecia Martel, la quale purtroppo non produce molto, ed è da un po’ che si aspetta qualcosa di suo in un qualche festival. L’ultimo lavoro conosciuto è un corto promozionale per Miu Miu, Muta, e dunque onore a Miuccia Prada che le ha affidato un progetto che non è solo pubblicità per uno dei suoi marchi. Il nucleo irradiante del cinema della Martel resta la folgorante trilogia cominciata nel 2001 con La Cienaga, proseguita con questo La niña santa e conclusasi nel 2008 con La donna senza testa. Uno più bello dell’altro, uno più crudele e perturbante dell’altro. Un trittico in cui Martel ci mostra cosa sia la sua idea di cinema, un mezzo per penetrare all’interno (anche dei corpi e delle menti e della psiche) della borghesia bianca argentina tradizionale, ormai parecchio decaduta e quasi larvale. Un mondo in progressivo disfacimento entro cui si producono tensioni, e in cui anche le pulsioni vitali, come quelle del sesso, anzichè immetere nuova linfa nell’ordine delle cose e delle vite, diventano ulteriore elemento di disgtregazione. Prodotto da Pedro e Agustin Almodovar, La niña santa si svolge in un meraviglioso albergo fatiscente in una qualche provincia argentina (e, coincidenza, in un vecchio albergo si svolge pure un film di un’altra regista argentina, Lucia Puenzo, visto quest’anno a Un certain regard a Cannes, Wakolda), un luogo come sospeso nello spazio e nel tempo che diventa quinta e scena di un incontro-scontro di anime tra perdizione e redenzione. Mentre si svolge un congresso medico, una ragazzina, Amalia, e la sua migliore amica, Josefina, devono fare i conti con il risveglio sessuale e le regole e le sregolatezze dell’attrazione. Ma Amalia, influenzata dalla sua rigida visione cattolica, sviluppa una sorta di fobia verso il peccato e l’osceno, e dopo aver conosciuto un medico libertino venuto all’hotel per il congresso, si mette in testa di salvarlo e redimerlo. Santità continuamente pencolante verso il suo opposto, e minacciata dalla forza della carnalità, e anche da essa nutrita. Legame morboso ed equivoco tra Amalia e il medico. E un clima soffocante da cui sembra impossibile scappare. Lucrecia Martel sa magistralmente, da autore della massima serie, suggerirci il celato, il non detto, i movimenti sotto la superficie e l’apparenza. Gran film, tra i vertici della scorsa decade. Si è speso il nome di Almodovar, ma qui se un nome di riferimento va trovato è quello di Buñuel (e pure Polanski). Con un bel po’ del Fellini di Otto e mezzo nelle scene intorno alla piscina termale.
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