Wolverine: l’immortale, regia di James Mangold. Con Hugh Jackman, Brian Tee, Hiroyuki Sanada, Hal Yamanouchi, Rila Fukushima, Famke Janssen, Svetlana Khodchenkova, Tao Okamoto.
Comincia con l’atomica di Nagasaki, questo darkissimo Wolverine: l’immortale. E il Giappone, con le sue tecnologie future e i culti guerreschi, è lo scenario di tutto il film. Al supereroe dagli artigli d’acciaio vogliono rubare il dono più prezioso: l’immortalità. Se la dovrà vedere con nemici di ogni tipo, e intrighi di corte tra Il trono di spade e Il trono di sangue di Kurosawa. Non male. Con qualche zona inerte di troppo, con qualche frattura non suturata tra action e parte psycho. Voto 6 e mezzo
Dignitosissimo questo sequel/non sequel di X-Men le origini: Wolverine. Sequel/non sequel perché sulla sua natura il dibattito ferve tra addetti ai lavori fumettistici-d’animazione e fanatici fino alla psicodipendenza del super-eroistico. Io che sono uno spettatore non particolarmente avvinto da queste saghe fracassone-marvelliane, Wolverine: l’immortale me lo sono guardato laicamente e me lo sono goduto per quel che, senza torturarmi su discendenze, ascendenze, parentele, matrici e spin-off, tutta roba che lascio ai forum degli ossessionati. Lo spettacolo c’è, lo script (dell’ottimo Christopher McQuarrie) ha anche finezze e sinuosità ormai non più così insolite nei blockbuster digitalizzati (penso al Cavaliere oscuro e al reboot di Star Trek), il plot evita il banale aprendo più finestre e snodandosi su più livelli: oltre al principale e più visibile, l’action, c’è quello della vita interiore del supereoe che fa fatica ad esserlo ed è sempre combattuto, diviso, dimidiato, al limite della schizofrenia e della dissoluzione psichica. C’è la fascinazione e il terrore per la tecnologia e le sue scoperte, le sue manipolazioni sempre più avanzate del biologico, la sua esplorazione dei limiti dell’umano e il loro superamento. Questi colossi cinematografici sono oggi la narrativa più ricca e articolata di cui disponga il nostro mondo, sono l’organizzazione discorsiva di materiali, simboli, segni, sogni dell’attuale globalità. Una costellazione che è anche mitologica, in grado di captare e di esprimere (sul come ci sarebbe molto, troppo da dire) conscio e inconscio planetario.
L’inizio di questo Wolverine è notevolissimo, fatto di incubi, ricordi malsani, deliri: una discesa nell’inconscio del protagonista assai dark. Tenebre e fiamme. Esplosioni. Sangue. Ferite mortali. Una sinfonia del massacro che è sì di massima cupezza, ma che ti stringe all’angolo e ti costringe a seguire il racconto, a non mollarlo e a non fartene mollare. Wolverine, altrimenti detto Logan, X-man lupesco dagli artigli d’acciaio, condannato all’immortalità (ogni ferita del suo corpo si autoripara immediatamente), è un outcast sempre sull’orlo della disperazione, sempre in cerca di un qualcosa che lo sostanzi e gli dia un senso. Lo vediamo all’inizio salvare un soldato giapponese chiamato Yashida, prima dal fuoco atomico che ha distrutto Nagasaki, poi dal suicidio rituale che, secondo la traidizione nipponica, è dovere degli sconfitti. Decenni dopo, mentre Logan si è ridotto a semicavernicolo selvaggio in un qualche foresta nord-americana percorsa da grizzly e da cacciatori ancora più perniciosi degli orsi, e sembra un Rambo perfino più capelluto e sozzo e lasciato andare, ecco che vien ripescato da una giapponesina assai decisa di nome Yukio anche lei dotata di un superpotere, però molto sinistro, tanto per aumentare il tasso di darkismo della storia: quello di vedere in anticipo la morte altrui. La manda Yashida, l’uomo salvato da Logan/Wolverine, intanto diventato il padrone della più potente company asiatica, di quelle allarmanti dall’organizzazione militaresca e dedite alla conquista del mondo con i loro prodotti ad altissimo contenuto tecnologico, prodotti inquietanti situati sulla frontiera tra il meccanico, il digitale e il biologico. Volo verso Tokyo del cavernicolo, con adeguata pulizia e rasatura onde possa essere presentato al cospetto del malatissimo ma pur sempre potentissimo Yashida. Non capiremo subito quel che il vegliardo morente per un cancro vuole da Wolverine, lo scopriremo strada facendo insieme al nostro eroe, il quale si renderà tragicamente conto di essere caduto in una trappola. Rischierà, l’uomo-lupo, di perdere non solo i suoi artigli, ma il suo dono più prezioso, l’immortalità. Se la dovrà vedere con nemici di ogni tipo, Viper in grado di intossicare chiunque, il losco figlio di Yashida, bande di spietati yakuza, un politico corrotto e pronto a tutto pur di arrivare al potere più alto. Accanto a lui c’è Yukio, la ragazza che l’ha scovato tra i boschi, un’intrepida pronta a ogni più estremo combattimento. A parte qualche scena iniziale, tutto si svolge in Giappone, immagino per motivi di marketing, visto che ormai l’Asia è il mercato prevalente per questi prodotti cinematografici. Dunque è tutto un lottar di arti marziali, scontri furibondi e sanguinosissimi e però con la precisione di aggraziate coreografie, lame mirabolanti e miracolose e bellissime a vedersi. Molto è dedicato agli intrighi nella corte del vecchio Yashida, e all’interno della sua stessa famiglia. Questo Wolverine: l’immortale in certi passaggi somiglia parecchio al Trono di spade, la più shakespeariana delle saghe tv, e perfino al Trono di sangue di Kurosawa, che del Macbeth di Shakespeare era la trasposizione nipponica. È la parte migliore del film, la più eccentrica e suggestiva, purtroppo presto sommersa dal fracassonismo dell’action, come esige il genere supereroistico in cui il film inesorabilmente è inscritto e costretto. Il limite di Wolverine sta nel non riuscire a tenere insieme le sue molte anime e le molte tentazioni e piste narrative, con passaggi spesso bruschi e incongrui dal registro psicologico e perfino intimista a quello del casino adrenalinico. Con strane lungaggini e zone inerti, se non morte, alternate a improvvise accelerazioni. Però si lascia vedere, e non ti fa vergognare di essere andato al cinema. Il roccioso Hugh Jackman deve lavorar soprattutto di muscoli e grugniti, e non deve cantare come in Les Misérables, ed è meglio. Tao Okamoto come Mariko è bellissima. Svetlana Khodchenkova, con la faccia da ragazza dell’est di quelle cattive (genere Kurylenko prima maniera per intenderci), è la bella e mortale Viper.