7 Days in Havana, La effe (canale 50 dt), ore 21,35.
Ripubblico la recensione scritta dopo la presentazione del film a Cannes 2012 a Un certain regard.
L’Avana oggi raccontata in sette episodi diretti da altrettanti registi, compresi Benicio Del Toro, Laurent Cantet e quel gran talento di Gaspar Noé. Visti i nomi in ballo, ci si aspettava qualcosa di molto buono. Invece no. Tranne qualche eccezione (l’episodio di Elia Suleiman ad esempio) il film non riesce a smarcarsi dal pittoresco. Cartoline dall’Avana fatte di cliché, popolate da belle ragazze in vendita e da gente che balla canta, balla e suona ed è animata da una carica vitale inesauribile. L’Avana come nuova Napoli. Critiche al regime? Sì, qualcosa c’è, però, insomma. Voto: 5
7 Days in Havana (7 Dias en La Habana, Sette giorni all’Avana), regia di Benicio Del Toro, Pablo Trapero, Julio Medem, Elia Suleiman, Juan Carlo Stabio, Gaspar Noé, Laurent Cantet. Con Josh Hutcherson, Daniel Brühl, Emir Kusturica. Presentato a Cannes nella sezione Un certain regard. Il film esce in Italia l’8 giugno.
Sette registi chiamati a raccontare in sette episodi, ognuno a modo suo, la capitale di Cuba, l’eldorado tropicale e tropicalista di milioni di turisti, soprattutto europei, soprattutto italiani. Ancora sotto un regime che è la prima variante caraibica del socialismo reale, con un lider maximo che, benché in ritiro, continua ad allungare immarcescibile la sua ombra. Film di incerta, ibrida nazionalità, come sempre più spesso capita nel cinema, coprodotto da Spagna e Francia, ma di marca più francese, essendo il motore dell’operazione la parigina Full House che già si era avventurata nel megaprogetto con la Cina 11 Fleurs. Ne valeva la pena? Mah. Proiettato in prima mondiale con una certa ufficialità a Cannes a Un certain regard – alla serata c’erano tutti i signori registi in smoking più Emir Kusturica interprete di un episodio, presentati con insospettata verve nientedimeno che da Thierry Frémaux, direttore artistico del festival – 7 Days in Havana è un colorato, sgargiante film a episodi come se ne facevano tanti nell’Italia anni Cinquanta-Sessanta-Settanta, e non così dissimile nel suo populismo da certi nostri prodotti di allora come L’oro di Napoli e Ieri, oggi, domani. (Nota a margine: Benicio Del Toro, come ho già scritto per il sito di Myself, ha sconvolto le sue devote ammiratrici presentandosi sul palco della Sala Debussy ingrassato e quasi irriconoscibile, un pupone pingue e inquartato). Dopo aver visto questo 7 Days si capisce come L’Avana sia diventata, definitivamente, la nuova Napoli. Uguale l’approccio di chi racconta, molto simile lo sguardo. La capitale di Cuba è vista come miscuglio esplosivo e vitale di gente povera ma meravigliosa, di ingegno aguzzo nell’arte di arrangiarsi e dribblare i problemi della vita, sempre pronta a ballare, suonare, cantare, fare l’amore, sperare e disperarsi. Corpi, vista la latitudine del posto, spesso seminudi ed esposti al sole e sensualmente esibiti a uso dello spettatore globale. Tra i sette registi – si va dall’americano Benicio Del Toro al franco-argentino Gaspar Noé all’argentino Pablo Trapero e al palestinese Suleiman – qualcuno riesce a distaccarsi dall’oleografico, dall’ovvio, dallo stereotipo, ma nel suo fondo e nella sua generalità il film resta un Saluti dall’Avana dei più convenzionali, e pure le critiche a Fidel e ai suoi fedeli raramente escono dal cauteloso. Lo fa Elia Suleiman, nell’episodio sorprendentemente migliore, nella parte di un regista molto simile a se stesso in attesa di avere un incontro con il Lider Maximo e dunque alle prese con l’asfissiante burocrazia della sua ambasciata palestinese (o consolato) e di quella cubana, osando esplicitamente ironizzare e anche farsi beffe qua e là dei rituali stantii del regime. Un racconto-non racconto di astratta comicità alla Buster Keaton, alla Jacques Tati, con un bravissimo stralunato Suleiman che si muove in una Avana ai limiti della surrealtà, ma assai poco realismo magico. Mi aspettavo molto da un regista che amo come Gaspar Noé – il suo Enter the Void è davvero uno dei vertici del cinema di quesi ultimi anni – ma il suo contributo qui è abbastanza deludente e resta minore, una apparentemente oggettiva registrazione (in realtà assai interpretativa) di un rito notturno di purificazione esercitato da un sacerdote della Santeria su una ragazza che i genitori vogliono liberare da una relazione lesbica. Niente parole, solo corpi e gesti, momenti che qua e là somigliano a uno stupro (i vestiti della ragazza tagliati e strappati, le lame che appaiono inquietanti). Puro Noé insomma, anche a tratti notevole e conturbante con quella musica ipnotica e ossessiva e la macchina da presa che morbosamente avvolge la ragazza, se non fosse che il tutto finisce col ricordare – al di là del rigore e delle ottime intenzioni del regista – quei falsi cerimoniali voodoo e della santeria che vengono allestiti a uso dei turisti per far loro provare il brivido del paganesimo afrocaraibico: tornano alla mente perfino certi mondo movies di Jacopetti e Prosperi degli anni Sessanta-Settanta con il loro catalogo di stravaganze e orrori primitivi o presunti tali filmati qua e là per il pianeta (Mondo cane, Ultime grida dalla savana, ecc.). Il primo episodio firmato da Benicio Del Toro, che non compare come attore e che ha per interprete il giovane Josh Hutcherson di Hunger Games, è forse il peggiore, una barzelletta di quelle che negli anni Settanta si raccontavano su certi clienti di prostitute turlupinati, con un protagonista scemo che non si rende conto di quello che gli spettatori hanno capito da subito. Le jineteras imperversano in tutto il film, belle ragazze pronte a vendersi e a svendersi, e su questa prostituzione diffusa 7 giorni a L’Avana bisogna dire che non è reticente, e il bordello a cielo aperto, come qualcuno ha ribattezzatto Cuba, ce lo racconta in modo assai esplicito. C’è anche qualcuno che se ne va via clandestinamente su un barcone, ed è il massimo di critica politica espresso dal film. Per il resto appunto si balla canta e fa musica. L’episodio ultimo, di quel signor regista che è Laurent Cantet, uno che con La classe qualche anno fa si è portato via la Palma d’oro a Cannes, è molto godibile, una storiella carina di una devota che vuol allestire una gran festa in onore della Madonna, però manierata, oleografica e luogocomunista. Non parte male Jam Session di Pablo Trapero, protagonista un regista di cinema carico di gloria e soprattutto di alcol – Emir Kusturica nella parte di se stesso, e non si sa se la devozione all’alcol sia solo del se stesso personaggio del film o no – che viene al festival dell’Avana per ritirare un premio alla carriera, e per un po’ sembra Toby Dammit di Fellini al rum. Peccato che poi tutto finisca in musica secondo lo sdato cliché Buena Vista Social Club et similia (onore comunque a Kusturica per l’autoironia). Il guaio di questo film è che predominano i cliché per l’appunto e lo sguardo resta perlopiù quello dello straniero che privilegia l’ovvio e non riesce ad andare oltre. Con le eccezioni che si sono dette sopra (Suleiman e qualcos’altro, qualcun altro). Finisce che la rappresentazione di Cuba, pur sempre un paese a regime totalitario, diventa troppo edulcorata, troppo intrisa di bonomia, senza corrosività, senza voglia di scoprire cosa sta sotto il tappeto. No, tuttosommato non si sentiva il bisogno di un film così.
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