Sangue, regia di Pippo Delbono. Con Margherita Delbono, Giovanni Senzani, Pippo Delbono. Presentato nel Concorso internazionale. Voto 5
I film di Pippo Delbono parlano di Pippo Delbono. Il raggio è sempre quello della più stretta autobiografia, oltre non si va. Questo Sangue, che arriva dopo Amore Carne presentato l’anno scorso a Venezia e uscito un paio di mesi fa in sala, non fa eccezione, ovvio. Girando con microcamera e qualche volta il cellulare, Delbono – adorato, è il caso di ricordarlo, in Francia quale autore-regista-attore teatrale massimo – riprende la madre Margherita assai malata, se stesso in una Cavalleria rusticana a Napoli insieme all’inseparabili Bobo, e Giovanni Senzani, sì, lo storico leader delle bierre uscito dopo trent’anni di galera fatta per i sequestri Ciro Cirillo e Roberto Peci, questo conclusosi con un’esecuzione (anzi, omicidio). Non c’è un centro drammaturgico, tutto parte da Delbono e a lui ritorna, in una circolarità implacabile e autoriferita. Che dire? Quel che si dice sempre dei film di Delbono. Qualche immagine potente, passaggi ad alta suggestione, il resto è latitanza di una qualsiasi trama e raccordo, e il solito ‘parliamo tanto di me e di chi mi sta intorno’. Prendere o lasciare. Io tendo alla seconda, devo dire. Qui le parti migliori sono quelle in cui madre e figlio si parlano, i ricordi di lei, donna religiosissima, l’evocazione di un’apparizione della Madonna. Poi, la malattia, il progressivo indebolirsi e infragilirsi fino alla morte, e Delbono a riprendere il corpo ormai debilitato, e la voce ormai ridotta a suono, gorgoglio quasi impercettibile. Certo qualche domanda di tipo etico ce la si fa: sarà il caso di mostrare lo stato preagonico della propria madre (ma vale per qualsiasi altra persona)? Sarà il caso, come Delbono fa, di riprendere a camera fissa il cadavere della madre mentre una musica peraltro bellissima accompagna l’inquadratura? Un qualcosa che somiglia alla santificazione, ma che non allevia il senso di disagio nello spettatore. Altri dubbi vengono a proposito di Senzani, al quale Delbono non fa mai le domande che tutti vorremmo fargli: ma cosa ne pensi di quel periodo? rifaresti quello che hai fatto? come giudichi oggi i delitti delle brigate rosse? Niente di tutto ciò, ed è un’occasione persa, per non dire di peggio. Solo alla fine Senzani, dopo la morte per cancro della compagna Anna che ha aspettato per trent’anni che uscisse di galera, si lascia andare al ricordo di come venne ammazzato il povero Roberto Peci, fatto fuori in quanto fratello del ‘traditore’ Fabrizio. Senzani è scosso, ma continua a parlare come allora di processo politico, di logica rivoluzionaria e quant’altro. Mai che dica: no, Roberto Peci non andava ucciso, e se solo potessi tornare indietro farei di tutto per impedirlo. Qui nessuno chiede il pentimento pubblico, ci mancherebbe, ma qualche parola di pietà in più per le vittime, questo sì. Delbono riprende e ascolta, e mai una domanda che possa suonare inpportuna al suo amico Giovanni. Alla fine, chissà perché tra le rovine dell’Aquila terremotata (ma i film di Delbono sono così), l’autore-mattatore si lascia sfuggire disgraziatissime parole sul “riprendere le armi” a fini di riscossa morale. Metafora di sicuro è, olretutto temperata subito da una citazione buddista, ma era proprio il caso? La parte meno ovvia è il viaggio di Delbono in Albania in cerca di un farmaco cubano tratto dal veleno di un micidiale scorpione blu considerato benefico per i malati di cancro. Gliene ha parlato il compagno Senzani, e lo si trova ancora a Tirana e Durazzo come ai tempi dell’Albania comunista. Una bizzarria che resta tra le cose migliori di Sangue.
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