Venezia Festival 2013: PHILOMENA (recensione). Standing ovation per Judi Dench e film furbissimo, un lacrima-movie irresistibile

_D3S1363.NEFPhilomena, regia di Stephen Frears. Con Judi Dench e Steve Coogan. Presentato in Concorso.PHILOMENA_RAW_0199.CR2
Philomena ha ormai un’età e vuole a ogni costo ritrovare il figlio che le è stato strappato cinquant’anni prima in Irlanda e dato in adozione in America. Sarà un giornalista politico in crisi professionale a darle una mano. Emergeranno cose inaspettate, anche dolorose. Un film ispirato a fatti veri, irresistibile, di ineccepibile confezione. Con una Judi Dench travolgente, accolta alla conferenza stampa da una standing ovation. Però, nonostante la massiccia iniezione di british humour, il film resta qualcosa tra Carramba, Invernizio e C’è posta per te. Non proprio il cinema che amo. Voto 5_D3S8512.NEF
Applausi pazzeschi stamattina da parte della schifiltosa platea dei giornalisti, non certo facile agli entusiasmi. Immagino che alla proiezione per il pubblico sarà standing ovation, soprattutto per Dame Judi Dench. Che dire? Prodotto furbissimo, di implacabile perfezione, una macchina programmata per il successo, e successo sarà in tutto il mondo. Mica per niente dietro c’è quel genio della cineindustria, e pure del marketing, che risponde al nome di Harvey Weinstein. L’uomo che dal niente ha creato negli Stati Uniti il caso di The Artist portandolo agli Oscar che sappiamo, e che ha fiutato prima degli altri il ricco mercato degli spettatori di terza e quarta età (e anche oltre) vogliosi di storie su misura. I molti dollari incassati prima da Marigold Hotel e poi da Quartet l’hanno convinto a perseverare nel genere, ed ecco che da casa Weinstein sono arrivati Una canzone per Marion (pessimo però) e adesso questo Philomena. Stavolta gli ingredienti per un trionfo al box office ci sono tutti. Una storia che sta tra Carramba, C’è posta per te (inteso come De Filippi) e il vecchio Matarazzo, e però realmente accaduta a una signora irlandese. Figuriamoci, un bambino illegittimo partorito in un collegio retto da tremende suore irlandese e poi sottratto alla genitrice e venduto in adozione a una coppia di americani. E lei, Philomena, adesso a un’età inoltrata vuole sapere di quel figlio, vuole ritrovarlo, vuole conoscerlo, vuole sapere che vita ha avuto, se felice o no. Puro Invernizio. A questo aggiungiamo un’interprete di eccellenza assoluta quale Judi Dench, e un regista di ottimo mestiere e mai corrivo come Stephen Frears. Il risultato è quanto abbiamo visto stamattina in Sala Darsena, con tanto di applausi e lacrime, e non è che l’inizio per un film che andrà lontano. L’abilità suprema dello sceneggiatore, del regista e anche degli interpreti è stata nel contemperare la strutturale lacrimosità di una vicenda simile con abbondanti iniezioni di britannicissimo humor e disincanto, e raffinatezze di scrittura. Lo scontro di caratteri, il gornalista politico-intellettuale che vuole scrivere un libro sulla storia russa e la popolana ex infermiera avida lettrice di romanzacci rosa, è delineato come meglio non si potrebbe, e certi dialoghi dovrebbero diventare materia di studio in certe scuole di sceneggiatura (sopratutto italiane). Sicché il prodotto si adatta sia al pubblico che un tempo si definiva popolare (però adulto-adulto, non mi vedo un ventenne fare la fila per vederselo) sia a quello festivaliero. È la figlia di Philomena a intercettare un giornalista in disgrazia, licenziato da un ministro per cui lavorava come spin doctor o portavoce o qualcosa del genere, e convincerlo a incaricarsi di quella ricerca. Fiutando il pezzo, Martin Sixsmith accetta. La prima tappa è il collegio irlandese di monache in cui la giovane Philomena era stata rinchiusa dopo essere rimasta incinta. Uno di quei Magdalene di cui già un film vincitore qui a Venezia descrisse anni fa le nefandezze. Naturalmente nessuno sa niente, le monache di allora son quasi tutte morte, un incendio ha distrutto i documenti. Il giornalista decide di aggredire la vicenda dall’altro lato, dall’America, dove il figlio Alex era stato adottato. Ed è da Washington che lui e Philomena ripartono. Non voglio rivelare granché. Dico solo che in quello che salta fuori c’entrano Reagan, Bush, la Casa Bianca, l’omosessualità, l’Aids. Un melodramma che solo la realtà avrebbe potuto combinare a un tale livello di intensità giacché, signora mia, la vita è un romanzo. Ho visto giornaliste piangere come fontane, io no, scusate. Riconosco l’abilità dell’operazione, e benissimo ha fatto Venezia a prendersi Philomena in concorso, che poi son di quei film che conquistano il mondo e premi di vario tipo, piantando la bandierina di questo festival dappertutto. Massimo rispetto per Judi Dench che, se tutto fila liscio, rischia di beccarsi tutte le nomination possibili e magari anche qualcosa di più (tant’è che qui circola la battuta: “Ma l’ha già scelto il vestito per l’Oscar?”). Viva Dench, viva Frears. Però, sorry, il cinema che mi fa fremere è di altro tipo, non questo.

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