The Zero Theorem, regia di Terry Gilliam. Con Christoph Waltz, Mélanie Thierry, Matt Damon, David Thewlis, Lucas Hedges, Ben Whishaw, Tilda Swinton. Presentato in concorso.
Un genio del computer smanetta e lavora intorno a un progetto chiamato Teorema Zero, e intanto incombe la fine di tutto, lo zero assoluto, il vuoto, il niente. Grandi discorsi di cui non si capisce granché, e intorno un universo visionario in perfetto Gilliam-style, in un futuro già decrepito e pericolante. Le immagini di questo ritorno del regista di Brazil e Paura e delirio a Las Vegas sono grandiose, ma perché inquinarle con un fiume di parole improbabili? Voto 5
Ci si aspettava parecchio da questo ritorno al cinema dell’irregolare Terry Gilliam, ritorno oltretutto con il sacro sigillo del Concorso veneziano. Sarà meno incontinente del solito, si pensava, meno autoriferito, il film avrà una costruzione narrativa di una qualche solidità, un capo e una coda. Macché. Gilliam è Gilliam, quello è, prendere o lasciare. Di quegli autori che si fanno amare e detestare in pari misura. Io son più della tendenza seconda che della prima, che volete farci, son più portato al cinema del rigore, dell’austerità e della sottrazione (anche se non sono un fondamentalista-cinecalvinista) che a quello del barocco e della baracconaggine che con la scusa della visionarietà esagera, accumula, ingombra la scena, la satura di segni: e anche di sogni, se è per questo. La vita e il cinema come sogno e incubo. Gilliam appartiene in pieno a questa categoria, come peraltro il francese Jeunet, e io non li reggo proprio, scusate. Stamattina prima della proiezione di The Zero Theorem mi son fatto un po’ di autocondizionamento e ci sono andato senza pregiudizi e piuttosto bendisposto e voglioso di apprezzare. Bene, non ci sono riuscito. Sul genio di Gilliam nel creare immagini, macchine visionarie celibi e chiuse in se stesse, non si discute. Quella metropoli che vediamo all’inizio, un coacervo di futurismi tecnologici e smandrappature e degradi calcutteschi, c’ha il suo sinistro, luridissimo fascino. Lo stesso l’antro in cui abita il protagonista, un signore molto capace in smanettamenti tecno-computeristici, che è una ex chiesa semincendiata ridotta a loftone-stamberga polverosa e sozza, con santi e madonne alle pareti, e cristincroce però senza testa e al suo posto un occhio-telecamera di non ho capito quale Grande Fratello Controllore (spero non sia una cattiva metafora della Chiesa come controllore delle coscienze, spero vivamente di no). Lui, per incarico di non ho capito quale company, lavora da casa (è come quei pochi fortunati che ci hanno un contratto di telelavoro) attorno a un progetto chiamato Zero Theorem, un teorema che, una volta dimostrato, riduce il mondo, anzi la realtà al niente. Sempre che anche qui abbia capito bene. Poi lui mentre smanetta per risolvere ‘sto teorema resta in attesa di una chiamata telefonica in cui gli dovrebbe essere rivelato il senso della vita, chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo. Poi arriva una ragazza che forse è uno strumento di non ho capito chi però forse è davvero innamorata di lui, e lui, stupido, manco se la fila. Si discetta molto intorno a cose che non ho afferrato, finché il teorema viene dimostrato. Ora, non sono così beghina da pretendere da un film una storia a tutti i costi, mi stan bene anche quelli scatenati e sfrenati e fuori di testa. Ma allora, please, andiamo sulle immagini pure, senza menarcela troppo con parole e parole e parole sul nulla, anzi sullo zero (ma forse sul tutto) come in questo caso. Certo, Gilliam riesce ancora una volta a ricreare quei suoi mondi di domani che sembran però già decrepiti, un futuro capovolto in passato remoto, mondi mai scintillanti, sempre rugginosi e difettosi, sempre sul punto di autodistruggersi, dissolversi irreparabilmente. Bello, ma perché inquinare queste visioni con un fiume di discorsi improbabili e un filosofeggiare compulsivo da vecchio prof di filosofia da vecchio liceo di provincia? Gran cast: da Gilliam accorrono sempre nomi di prima fascia, è come per Woody Allen. Il protagonista è il bioscarizzato tarantiniano Christoph Waltz, in versione calva. Matt Damon è il Boss (ah, quelle sue giacche uguali alla tappezzeria: fantastiche), Tilda Swinton è una strizzacervelli virtuale ed è quasi irriconoscibile finché non si toglie la parrucca. Più il glorioso David Thewlis e il rampante Ben Whishaw, il Q di Skyfall.
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