Venezia Festival 2013: L’INTREPIDO di Amelio, un commento a caldo (film bello e imperfetto)

IntrepidoEsco adesso dalla proiezione-stampa in Sala Darsena di L’intrepido di Gianni Amelio, secondo film italiano in concorso. Applausi, e però senza grande entusiasmo e partecipazione, e molti buuh della solita anti-claque, in tutta evidenza programmati e preparati. Il film non è quell’esordio nella commedia di Amelio di cui si era parlato. È invece il ritorno suo a quanto sa fare meglio, descrivere l’Italia, le sue zone oscure e periferiche, il suo sottosuolo. Un uomo (Antonio Albanese, assai controllato e trattenuto, quasi lunare, e Keaton-esque), perde il lavoro causa chiusura fabbrica e, attraverso un turpe boss che lo, fa il sostitutore, il riempitivo. Quando qualcuno si deve assentare dal lavoro o si ammala, lui va al posto suo. Per un’ora, un giorno, due, quanto è necessario. Il precariato all’ennesima potenza. Lo vediamo così nei lavori più e meno improbaili, ed è un’immersione nell’Italia che ancora usa le mani e se le sporca, non fa lavori creativi e fighetti. C’è un figlio musicista, c’è una ragazza infelice. C’è soprattutto Milano, magnificamente fotografata da Luca Bigazzi e finalmente, per chi ci abita e la conosce, credibile. La nuova Milano Garibaldi-Isola, e quella delle periferie. L’intrepido ha un andamento rapsodico, accumula segmenti e singoli episodi e non ce la fa a costruire, o non vuole, una progressione narrativa e drammaturgica. Un film orizzontale, non senza ripetizioni e ridondanze. Però l’occhio di Amelio è assoluto, è quello di un maestro; il dolore quotidiano, la durezza di questa Italia senza lavoro e come implosa, depressa e ripiegata su di sé, sono restituiti come nessuno ha saputo fare nel nostro cinema negli ultimi tempi. Il migliore Amelio da molti anni in qua. Imperfetto, ma, si sa, nessun film è perfetto. Apparizione di culto: Bedi Moratti come severa direttrice di un concorso pubblico.

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