Che strano chiamarsi Federico – Scola racconta Fellini. Di Ettore Scola. Con Tommaso Lazotti, Vittorio Viviani, Sergio Rubini, Giacomo Lazotti. Presentato Fuori concorso.
Scola racconta Fellini. Ma racconta anche se stesso e i suoi molti incontri con Fellini. Strano film, dove si mescolano documentario, biografia, autobiografia, ricostruzione mediante attori di pezzi di vita di Fellini (e Scola). Confezione impeccabile, certo. Applausone finale. Però circola una cert’aria di autoreferenzialità, e di Fellini (e Scola) non ci vien detto molto di nuovo. Il meglio sta nella prima parte, nella vita di redazione del Marc’Aurelio. Voto 5 e mezzo
Applausone stamattina in Sala Darsena alla fine della proiezione stampa. Strapiaciuto agli italiani e forse anche più agli stranieri (ah signora mia, Fellini è sempre Fellini) questo film dallo statuto indefinibile, parte documentario, parte fictionalizzazione, parte biografia, parte autobiografia. Tant’è che al momento di parlarne e scriverne si resta un attimo bloccati e perplessi. Cos’è mai questo film? Dire, come il sottotitolo, che Scola racconta Felini è dire solo una porzione di quanto s’è visto sullo schermo. Perché è un film su Fellini, ma anche su Scola. Su Scola che incontra Fellini, sulle intersezioni delle loro traiettorie (esistenziali, professionali). Con Scola che racconta Scola. Perché parlando di Federico, l’autore di questo film parla anche (soprattutto?) di se stesso. All’inizio sembra il classico omaggio al Genio Riconosciuto. Su una spiaggia che sa tanto di finzione e ricostruzione allo Studio 5 di Cinecittà, quello in cui il Gran Riminese ricreava la realtà modellandola sui propri sogni e desideri, un regista di spalle fellinianamente acconciato e con megafono a terra guarda il mare, e intanto davanti a lui passano personaggi assai simbolici del cinema felliniano. Il mago di Otto e mezzo, Zampanò e via citando. Poi, come in un clssico biopic, vediamo un diciannovenne Fellini – è Tommaso Lazotti – arrivare a Roma e presentarsi alla redazione del Marc’Aurelio con il suo album di disegni e vignette varie, e della rivista diventerà ben presto collaboratore. Ma la linearità narrativa si spezza allorquando ci vien mostrato un ragazzino di nove anni mentre legge al nonno cieco il Marc’Aurelio, rubrica di Fellini compresa. Quel ragazzino è Ettore Scola, che diventa da questo momento l’altro protagonista del film. Ancora liceale, Scola si presenterà pure lui al Marc’Aurelio, pure lui ne diventerà collaboratore (ma siamo nel dopoguerra, alla ripresa delle pubblicazioni del ’48), mentre Fellini ne è già fuori e scrive sceneggiature a ripetizione per vari film e, con Ruggero Maccari, spettacolini di varietà. Vite parallele? Di sicuro affinità e similarità che il film fa di tutto per rimarcare (e sta in questo secondo me il suo nucleo vero). Naturalmente Scola e Fellini si conosceranno, e sempre più il film, apparentemente parlando di Fellini, in realtà parlerà di Fellini-Scola. Scola che chiede a Fellini di interpretare se stesso sul set della Dolce vita in C’eravamo tanto amati. Scola che accompagna Fellini nelle sue scorribande notturne in macchina per Roma. Scola con Fellini e Maccari. Scola che condivide con Fellini il suo attore feticcio Marcello Mastroianni. Cosa ci vuol dire Scola con questo insistito Io lo conoscevo bene? Che la sua storia merita di essere rievocata quanto quella di Fellini? Allo spettatore ingenuo viene il sospetto che ci sia un bel po’ di narcisismo in questa operazione, poi scaccia subito il pensiero come sconveniente – trattasi di maestro del cinema italiano, dopotutto – e preferisce pensare che no, altro non è che un sentito omaggio di Scola al Regista Maximo del nostro cinema. Un simile pastiche, questo assemblare spezzoni di film passati, ricostruzioni di film, Fellini e Scola in video storici, Fellini e Scola interpretati adesso da attori, poteva risultare indigesto. Il mestiere di Scola invece, ed è il merito maggiore di questo strano film, riesce a oliare molto bene i passaggi da un linguaggio all’altro, da un livello all’altro, e a costruire una narrazione assai levigata e fruibile. Però. Però non è che ci venga svelato granché di Fellini. Il film in fondo resta, se non alla superficie, di certo a quella che è la Storia Ufficiale di e su Fellini più volte raccontata e ribadita. Se non siamo all’agiografia, certo ci si avvicina perigliosamente in alcuni momenti. Le scene di gran lunga più interessanti sono quelle che ci mostrano Fellini (e Scola) nella redazione del Marc’Aurelio, con compagni di lavoro che si chiamano Steno, Ruggero Maccari, Giovanni Mosca, Vittorio Metz, Marcello Marchesi, e più avanti Age e Scarpelli. Fellini faceva spesso il negro per le firme più note quando lavoravano per comici come Macario o Totò, o per le sceneggiature di film. L’altro picco sono i provini di Sordi, Tognazzi e Gassman per il Casanova. Poi arrivò Donald Sutherland, e li bruciò tutti. Gran finale con montaggio veloce dei frammenti più famosi del cinema di Fellini. Ovviamente accompagnato dalla marcetta di Nino Rota per Otto e mezzo. E in Sala Darsena è scoppiato un applauso da paura. Una splendida beatificazione, questo film, ma pur sempre beatificazione.
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