Anche se uscito solo adesso nei cinema italiani, il film danese Royal Affair è stato presentato in prima mondiale al Festival di Berlino nel febbraio 2012. Ripubblico la recensione scritta allora, dopo la proiezione alla Berlinale.
Royal Affair (En Kongelig Affære), regia di Nikolaj Arcel. Con Mads Mikkelsen, Alicia Vikander, Mikkel Boe Følsgaard, Trine Dyrholm, David Dencik. Presentato in Concorso alla Berlinale 2012. Vincitore di due premi: per il migliore attore a Mikkel Boe Følsgaard (il re pazzo) e l’Orso d’argento a Nikolaj Arcel e Rasmus Heisterberg per la migliore sceneggiatura.
Nella Danimarca del Settecento ancora immersa nell’ancien régime, la regina malmaritata a un re pazzo, zotico e violento si innamora di un tedesco dalle idee rivoluzionarie e volterriane. Sarà passione, e per il paese ci sarà una breve stagione di apertura. Poi vincerà la reazione. Un film che racconta un pezzo di storia interessante, ma che non riesce ad andare oltre la convenzione del period-drama. Eppure, clamoroso successo su tutti i mercati del mondo, uno dei film di maggior successo di sempre del cinema danese. Voto 5 e mezzo
Classico filmone storico di produzione danese con ampie immissioni di capitali tedeschi e svedesi (e girato nella Repubblica Ceca dove i castelli sono ben conservati e tutto costa meno), il quale dichiaratamente vuole sfondare sul mercato internazionale, tant’è che l’altro ieri, al suo primo giorno di proiezione qui a Berlino l’hanno acquistato subito un bel po’ di paesi, Giappone compreso. Si lascia guardare, questo period-drama che mescola, alla corte di Danimarca nella seconda metà del Settecento, amori e disamori regali, congiure di palazzo, complotti pubblici e privati, tradimenti politici e di alcova, pargoli bastardi, mentre dalla Francia arriva il vento che porta le idee dell’Illuminismo e scompagina i parrucconi di palazzo. Sì, si lascia guardare, questo A Royal Affair, però è un’occasione in fondo persa, visto che il pezzo di storia danese che racconta ha il suo bell’interesse ancora oggi, solo che ci voleva una qualche innovazione linguistica, un approccio cinematografico meno tremebondo di quello del pur giovane, appena trent’anni, regista Nikolaj Arcel. Che non osa niente ma proprio niente, non un movimento di macchina eterodosso, come se anche nel period-movie non si potesse fare qulcosa di decente, come se i Barry Lyndon kubrickiani fossero passati invano nella storia, come se il cinema delle crinoline e delle cuffie fosse condannato all’eterno ritorno e non potesse mai spezzare il cerchio. Vedendolo, questo En Kongelig Affære (ma sì, facciamo i diligenti, usiamo il titolo originale danese), si apprezza tantopiù a posteriori Les Adieux à la Reine che ha aperto la Berlinale, dove il buon Benoît Jacquot alle prese con una materia sdata e raccontata migliaia di volte come la Rivoluzione francese vista da Versailles, si ingegna parecchio a manovrare la macchina da presa e a re-inventare visivamente le scene più ovvie. Qui invece siamo nel pieno della convenzione che una volta si sarebbe detta televisiva, solo che adesso in tv si è andati molto, ma molto più avanti. Dunque, la storia. 1768. Arriva alla corte danese la novella sposa del giovane re Christian VII, un’inglesina sveglia, assai coltivata e aperta alle arti e alle nuove idee. Si aspetta il meglio, si ritroverà con un marito fuori di testa e brutale, un animale di cui lei, povera ragazza, è alla mercè senza poter nulla fare. Intorno una corte che è anche peggio, con vipere e serpenti a sonagli dappertutto, e con un consiglio di stato – che è quello che di fatto governa vista l’incapacità del sovrano – di rigidi parrucconi che hanno fatto della Danimarca uno dei paesi più reazionari, arretrati e medievali d’Europa. Drammi pubblici e privati. La bella viene quasi stuprata dal marito zoticone, rimane presto incinta, si immalinconisce. Intanto la situazione psichica del re consorte peggiora, e non sapendo più cosa fare, i consiglieri di corte disperati contattano uno studioso tedesco (ma di una zona annessa al regno danese) che ha fama di aver risolto molti casi difficili. Lui è un innamorato delle idee rivoluzionarie, dell’illuminismo, di Voltaire, e disgustato da quella Danimarca retriva dove ancora vigono le pene corporali, la tortura, dove i diritti dell’uomo sono alla pari di quelli delle bestie, cioè zero, e con la corte non c’entra nulla. Solo che il re non appena lo vede lo prende in simpatia, sicchè Johann Friedrich Struensee, questo il nome del tedesco, viene asunto come badante. Struensee (pronuncia: Strunze, che a noi italiani fa un po’ ridere, però al cinema qui a Berlino non eravamo così tanti) riesce a tenere sotto controllo la follia del sovrano, ma nello stesso tempo aumenta il proprio ascendente su di lui, lo plagia, lo domina, ne diventa il consigliere e il braccio destra, lo convince a eliminare il vecchio consiglio di stato dei parrucconi e a conferire il potere solo a loro due. Una specie di golpe di sinistra, diciamo così. In quattro e quattr’otto Struensee cambia la faccia alla Danimarca, vengono varate le leggi più liberali d’Europa, il regno rifiorisce nella libertà, lo stesso Voltaire si complimenta via lettera con il re Christian. Trionfo di Struensee anche nel privato. La regina si innamora di lui e incomincia così una torrida passione da cui nascerà una bambina. Che naturalmente il re penserà essere sua. Intanto Struensee ha di fatto tolto di mezzo anche il re e ormai regna-governa da solo. Mica può andare avanti così, e difatti non va. La reazione parte al contrattacco, e per Struensee saranno guai grossi. Fine della primavera di Copenaghen. Fine dell’amore con la regina. E anche qualcosa di peggio. Ora, un drammone che si segue volentieri, e che qualcosa ci dice su quella stagione d’Europa in cui le monarchie erano indecise se introdurre qualche vaga riforma ispirata ai Lumi o procedere imperterrite nell’ancien régime. Solo che manca un qualsiasi rigore, tutto viene messo nel frullatore – storia, amori, passioni – perché ne esca un pastone digeribile per i pubblici medi di tutto il mondo. Di buono c’è Mads Mikkelesen, il più grande attore danese, che io adoro da quando l’ho visto in Casino Royale e in Valhalla Rising di Refn, e che ieri era qui a Berlino; uscendo dall’Hyatt mi sono trovato vis-à-vis con lui, gran classe, longilineo, e quell’aria sempre vagamente malinconica e una certa sprezzatura dandistica che sono il suo marchio di riconoscimento. Però nemmeno lui può salvare un film come A Royal Affair. Che qualche riflessione comunque me l’ha fatta venire. Ad esempio, questo Struensee sarà stato pure progressista e illuminista, però non aveva mica tanti scrupoli nell’impossessarsi del potere e maneggiarlo come una clava, anche se a fin di bene (quello che lui riteneva essere il bene). Uno che, in nome della giusta causa e dei suoi ideali illuministici, era disposto a tutto: in lui intravedi già tutta la degenerazione delle future rivoluzioni e il cinismo dei futuri rivoluzionari, i Robespierre, i Lenin, gli Stalin. La Dialettica dell’illuminismo era già al lavoro, mostrando tutte le ombre e tutto il buio dei Lumi. Ma pensate che qualcosa di questo traspaia da A Royal Affair? Figuriamoci. Lì la divisione bene e male è tracciata rozzamente con la vanga, di qua gli illuministi-illuminati buoni a prescindere, di là i parrucconi retrivi e cattivi. Sfumature zero.
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