Recensione: THE GRANDMASTER di Wong Kar-wai. Un kung fu movie di estenuata raffinatezza, ambiguo e malinconico, oltre e contro le regole del genere

Esce giovedì 19 settembre in sala The Grandmaster di Wong Kar-wai. Ripubblico la recensione scritta dopo la prima mondiale del film alla scorsa Berlinale (dove il regista presiedeva la giuria).
20137779_4-700x466The Grandmaster (Yi Dai Zong Shi)
, regia di Wong Kar-wai. Con Tony Leung, Zhang Ziyi,
Chang Chen. Presentato alla Berlinale 2013 Fuori concorso.20137779_1-700x466
La vera storia di Ip Man, maestro di kung fu nella Cina dello scorso secolo, e di una donna che gli sta alla pari per abilità e talento. Intorno, l’occupazione giapponese, la vittoria maoista, la fuga a Hong Kong. Ma Wong Kar-wai butta via tutte le convenzioni del genere arti marziali e filma qualcosa di visualmente grandioso, di eleganza estenuata e languida. Un action epico venato di malinconia e senso della sconfitta, come imploso. Scene di combattimento che sembrano un musical di Minnelli. Un film senza un centro e un baricentro, ma una straordinaria operazione di metacinema. Voto 7+

il regista Wong Kar-wai sul set

il regista Wong Kar-wai sul set

Il Wong Kar-wai dell’immortale In The Mood for Love (e mica solo di quello) è qui a Berlino in quanto presidente della giuria internazionale, quella che assegnerà tra i film in competizione l’Orso d’oro. Giuria a maggioranza femminile: quattro dei sette giurati sono donne (tra di loro anche la regista danese Susanne Bier e la fotografa-regista iraniana della diaspora Shirin Neshat). Alla press conference stamattina il presidente si è presentato con i suoi compagni al completo (la più tempestata di domande è stata Shirin Neshat, visto che girerà un film sulla primavera egiziana), assai parco di parole e assorto, aria sfingea e impenetrabile molto orientale intensificata da occhialoni neri. Poco dopo siam corsi a vedere in proiezione stampa il suo ultimo film The Grandmaster, dato qui in prima mondiale. Ressa dei giornalisti, tant’è che si è dovuta aggiungere una proiezione mezz’ora dopo, alle 12,30, e io a questa sono entrato, essendo stato respinto alla precedente. È che non immaginavo una folla così, Berlino non è mica Cannes, pensavo che presentarmi un venti minuti prima sarebbe bastato, invece no. Poco male, mezz’ora di differita non è mica una tragedia. Ma il film? Reazioni mixed, qualche timido applauso c’è stato alla fine (soprattutto da parte di certe irriducibili fan del regista hongkonghese), ma l’entusiasmo no. Film complicato, stratificato, anche se travestito di semplicità. Al primo livello sembra un film di genere, un kung fu movie dei più classici, botte da orbi e volteggi per aria coreografici, ricostruendo The Grandmaster la storia di quella gloriosa arte del combattimento e di alcuni suoi maestri nella Cina del secolo scorso. Ma Wong Kar-wai non si accontenta di riproporre, pur in versione de luxe, il genere come aveva fatto ad esempio Zhang Yimou nella sua (peraltro meravigliosa) trilogia Hero, La cittò proibita e La foresta dei pugnali volanti. No, l’autore di In the Mood for Love e Happy together piega e spiegazza il film di kung fu, lo adatta a se stesso e al proprio mondo e alle proprie visioni, si ha a momenti anche l’impressione che non abbia nessuna voglia di girare un film di combattimento e faccia di tutto per sabotarlo dall’interno con anche assai chiari e percettibili slittamenti verso altri stili, altri generi, un altro cinema. Il risultato è un lavoro irrisolto, di molte e troppe facce, indeciso sulla propria identità e come sospeso in cerca di un baricentro. Ma anche, mirabile cinema della sospensione e della indeterminatezza, qualcosa di liquido che sfugge continuamente a ogni controllo e imbrigliamento e anche a se stesso. Io ne sono rimasto in molti momenti affascinato, ipnotizzato, ma ammetto che la sua ambiguità finisce e finirà col penalizzarlo. La storia è oscura, perché insegue più direzioni narrative ingarbugliandole abbastanza. Sono tanti i plot e i personaggi che si intrecciano e si sovrappongono senza mai dar vita a una narrazione compatta. Grossomodo possiamo dire che i protagonisti sono due, il virtuoso di kung fu Ip Man (Tony Leung, chi se no?), che viene dal Sud della Cina e che quella tradizione combattente porta con sè, e Gong Er (Zhang Ziyi), la bellissima figlia di un maestro di arti marziali che da lui ha appreso ogni segreto e ardito movimento e incarna la scuola del Nord. Tra l’altro, Ip Man, realmente vissuto, è già stato raccontato pochi anni fa in un biopic hongkonghese di enorme successo al box office (Rai 4 lo trasmette abbastanza spesso) e dunque appare ancora più sorprendente la scelta di metterlo di nuovo al centro di una megaproduzione come questa.
Gong Er e Ip Man si incontrano a Foshan nel 1938, poco prima dell’invasione giapponese. No, non si innamorano, lei ha fatto un voto per cui non si darà mai a nessun uomo, ma la loro strana relazione Wong Kar-wai la tratta e la filma come un amore impossibile, con tutte le morbidezze, le eleganze, anche i languori e l’indecifrabilità di cui è capace. Ip e Gong sono, prima che due combattenti del kung fu, un uomo e una donna rosi da un’infelicità perenne, anime scavate, monadi che trovano solo altre monadi e incapaci di comunicare tra di loro. Sì, Ip Man è sposato con figliolanza (scompariranno tutti a poco a poco causa malattie e tragedie belliche), ma non è questo a renderlo così indisponibile all’amore con Gong, è una sorta di resa interiore che la faccia eternamente malinconica di Tony Leung rende al meglio. Ora, immaginatevi un kung fu movie però sentimentalizzato e anche cerebralizzato dall’alienazione dei suoi personaggi, eroi quando si tratta di menare pugni e manate, fragili e fallati quando si ritrovano a fare i conti con il proprio mondo interno. Un’operazione così non l’ha mai tentata nessuna, perciò The Grandmaster è, al di là delle sue evidenti sfasature, così interessante, è la femminilizzazione di un genere squisitamente, indubitabilmente maschile, almeno finora. La sequenza d’apertura, con Ip che se la vede con una masnada di avversari e tutti li stende sotto la pioggia battente, è une esempio mirabile (e sfrenato) del manierismo e dell’iper formalismo di Wor Kar-wai. Dal wuxiapian si passa impercettibilmente al musical americano più elegante, quello di Minnelli o Stanley Donen, ed è una goduria per gli occhi. Di scene visivamente meravigliose ce n’è una quantità (il funerale del padre di Gong Er, gli scontri al bordello con le bellissime ragazze agghindate e truccate, e davvero com’era dolce la vita prima della rivoluzione), anche troppe, facendo venire il sospetto che il regista decori e smalti e lucidi per far dimenticare una sostanza narrativa che latita o alla quale non crede abbastanza (propendo per la seconda). Non bastassero queste sue già molte facce, The Grandmaster è anche un film epico e storico. Si attraversano decenni caldi di storia cinese, l’occupazione giapponese, la vittoria dei nazionalisti e l’ascesa dei comunisti, la fuga di molti (tra cui Ip Man e Gong Er) nella britannica Hong Kong. Ci sono cattivi che fanno i collaborazionisti e passano dalla parte dei giapponesi, ci sono nuovi maestri rampanti di arti marziali. Le grandi sequenze nella neve hanno qualcosa del Dottor Zivago di David Lean, solo che qui la storia d’amore è monca, come volutamente trattenuta, sfibrata, depotenziata. Intanto, il maestro Ip Man diventa a poco a poco un mito e di lì a poco nella sua scuola di Hong Kong arriverà ad imparare l’arte dei pugni un ragazzo di nome Bruce Lee.

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