Recensione. THE BLING RING: Sofia Coppola e le sue cattive ragazze fashioniste

‘The Bling Ring’ è nei cinema italiani da giovedì 26 settembre. Ripubblico la recensione scritta dopo la presentazione del film allo scorso festival di Cannes.
_DSC1496.NEFThe Bling Ring
, regia di Sofia Coppola. Con Emma Watson, Claire Julien, Taissa Farmiga, Katie Chang, Israel Broussard e Paris Hilton nella parte di se stessa. Presentato a Un Certain Regard.
_DSC0754.NEFQuattro ragazzine e un loro coetaneo si specializzano in furti nelle ville dei ricchi e famosi, e delle famose per essere famose come Paris Hilton e Lindsay Lohan. È caccia grossa a vestiti, borse, scarpe, gioielli firmati. È il gusto di sfregiare l’intimità dei propri idoli. Un film che si ispira a quanto accadde davvero qualche anno fa a Los Angeles. Sofia Coppola racconta ancora di ragazzine che faticano a crescere e l’ossessione della celebrità, ma in un film più estroverso e facile. Che è anche un crudele resoconto antropologico su certi mondi, certe sottoculture e tribù. Voto 7_DSC7814.NEF
Dopo il malmostoso e molto criticato Somewhere, Sofia Coppola torna con il suo film più mainstream, anche più estroverso e consumabile, quello che potrebbe anche conquistare un largo pubblico globale (femminile specialmente: non si vede quanto maschi possano essere interessati a questa storia molto da fashion victim). Torna a Un Certain Regard e non in Compétition, quasi declassata e punita dopo che parecchi anni fa il suo molto atteso Marie Antoinette qui in concorso fu accolto con niente applausi e molti buuh. Forse, anche, sottilmente e magari inconsciamente punita (anche i festival hanno un inconscio) per la contestata vittoria veneziana del Leone d’oro nel 2010 con Somewhere, assegnatale da un Tarantino presidente di giuria che la conosceva molto bene, essendo stato qualche anno prima il suo fidanzato. Quest’anno devo dire che il downgrading, spesso per imperscrutabili motivi, si porta molto a Cannes. Anche un’altra autrice maggiore come Claire Denis è finita a Un certain regard con Les salauds, ma i casi più chiacchierati quando si sta in fila o ai tavoli di qualche café son quelli di giornalisti il cui badge è stato declassato: da rosa a blu, o da blu a giallo (dovete sapere che qui vige un sistema assai castale, o da società di corte: a ogni giornalista vien dato un accredito con un colore, che stabilisce il rango e anche la priorità di entrata alle proiezione. In alto stanno quelli con il badge bianco – l’aristocrazia ianca, come la chiamo io -, seguono i rosa pastillé, poi i rosa e basta, quindi i blu, gli arancioni e, in fondo, gli ultimi, i gialli, chiamati anche ‘quelli della stella gialla’ per alludere alla infelice condizione di vittima designate. Gran parte dei giornalisti italiani qui, diciamo il 70 per cento, sta nella fascia blu). Ecco, a moltissimi è capitato, al ritiro del badge, di trovarsi con un colore peggiore dell’anno scorso, ed è stata una bella botta. Torniamo alla semi-bocciata Coppola, collocata a Un certain regard, anche se The Bling Ring ha avuto l’onore e la pompa che, essendo francese, è pompa davvero, dell’inaugurazione. Film che  me è piaciuto. Dopo Somewhere auspicavo che l’indubbio talento della Coppolina si applicasse finalmente a una storia un po’ più larga, un po’ più dispiegata. Questa lo è, anche se poi la talentuosa figliola di Francis continua a rigirare intorno alle sue ossessioni, ma poi, quale regista o artista non lo fa? Ossessioni che sono le fanciulle adolescenti, colte nel sempre complicato passaggio alla vita grande, prese nella rete di mille pulsioni. Fanciulle preferibilmente cresciute all’ombra di Hollywood, comunque attratte dal gorgo dalla celebrità. Stavolta però non ci sono più storie inimiste come in Lost in translation o Somewhere, ma qualcosa di più antropologico, il ritratto abbastanza algido e distaccato, ma di crudele esattezza, di certa subcultura giovane attratta dalla fama, dal successo, dai feticci sberluccicanti della moda. Un film-cronaca ispirato da una inchiesta di Vanity Fair America dal titolo I colpevoli portano Louboutin su una banda di teenager che qualche anno fa penetrava nella case dei ricchi, belli e famosi, soprattutto belle e famose, per razziare gioielli e ogni possibile oggetto fashion, scarpe, vestiti, orologi, e soldi se capitava. Eccolo qua il Bling Ring, come viene subito battezzata dai media la banda, e come ce la mostra il film: quattro ragazze e un loro coetaneo un po’ succube un po’ valletto un po’ eunuco. La leader è Rebecca, consumatrice come tutti da quelle parti di droghe varie, ormai ladra consumata e seriale. Convince un compagno di scuola timido e imbranato, col problema di non essere bello come ormai la regola sociale esige, anzi più che convincerlo lo plagia, e con lui comincia a penetrare in ville lasciate vuote dai proprietari in vacanza. Seguono colpi più grossi, insieme ad altre tre amiche-complici. E i colpi veri sono a casa dei loro idoli, i loro modelli di riferimento, le ricche e famose, le famose per essere famose, masimamente le due icone Paris Hilton e Lindsay Lohan. La banda del bling bling ruberà il rubabile. Ma non è solo quello, ovvio. E’ la smania, il bisogno di stare vicino alla celebrità, di annusarne l’intimità domestica, il penetrarne gli angoli bui e segreti, è il bisogno di essere lei in un processo di osmosi psicologica. I momenti migliori del film sono quelli dell’eccitazione, dello stupore estatico nel trovarsi all’interno del sacrario dei loro adorati totem. La stanza segreta in cui Paris custodisce centinaia di scarpe, i Rolex d’antiquariato della coppia Orlando Bloom-Miranda Kerr, i gioielli di Lindsay Lohan. Nessuno come Sofia Coppola in questo film ci aveva fatto capire finora quel brivido erotico, ma che attiene anche alla dimensione del sacro, che coglie il comune mortale a contatto con la star idealizzata e gli oggetti-simulacro che la rappresentano e ne sono il prolungamento. Come in una cerimonia che insiema celebra l’idolo e lo sfregia, lo distrugge. La banda del Bling Ring estende e moltiplica ciò che le due serve di Genet mettevano in atto verso la padrona troppo odiata per non essere anche invidiata e forse oscuramente amata. Non c’è da parte della regista alcun tentativo di psicologizzare o di cercare giustificazioni sociologiche (in questo è molto affine al film di Ozon Jeune & Jolie, visto il giorno prima a Cannes, che tratta di un’altra ragazzina, stavolta non ladra ma prostituta per scelta o per torpore o chissà cos’altro). S. Coppola segue il suo gruppo di mentecatte – con mentecatto annesso – nelle scorribande nelle magioni (ma davvero è così facile entrare in casa di divi e divetti? davvero non ci sono sistemi di allarme che pure da noi sono installati dappertutto?) senza partecipazione, semmai con una certa algida ironia. Indimenticabile la casa di Paris Hilton, già auto-mausoleo con le sue foto dappertutto, le sue copertine di vari magazine, perfino i cuscini con la sua faccia. I momenti più agghiaccianti e insieme divertenti sono le deposizioni al processo, le dichiarazioni alla stampa, da cui si desume una coscienza dei componenti del gruppo a linea piatta. Con Nicki (una Emma Watson ormai abbondamentemente mancipata da Harry Potter e molto cresciuta) che dichiara come l’esperienza l’abbia resa più matura e come il suo sogno sia di dirigere una grande organizzazione di charity e diventare una leader. Non aspettatevi un heist movie, un film di rapina come lo potrebbe dirigere un testosteronico giovinastro della Hollywood nuova-nuova, e nemmeno aspettatevi un altro Spring Breakers (anche se le analogie esteriori ci sono): qui i toni son sempre morbidi e sciccosamente svagati, l’andamento sinuoso ed elegante, il tocco inconfondibilmente femminile. Insomma, Sofia Coppola.

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