Da giovedì 3 ottobre è nei cinema italiani Gravity. Ripubblico la recensione scritta dopo la presentazione del film, fuori concorso, al festival di Venezia 2013.Gravity, in 3D. Regia di Alfonso Cuaron. Con George Clooney e Sandra Bullock. Proiettato Fuori Concorso.
Due lavoratori dello spazio, un uomo e una donna, finiscono alla deriva dopo un guasto alla loro nave. Ce la faranno? Cronaca di un’odissea umana, molto umana, per salvare la pelle lassù, a 700 chilometri di dalla terra. Gli effetti speciali piegati a un racconto di sopravvivenza e ritorno a casa. Una bella scommessa, un bel film. Chissà se piacerà alle platee gobali avide di robottoni e mostri. Formidabile Bullock. Voto 7 e mezzo
Non ha per niente deluso, questo fantascientifico alquanto anomalo che ha aperto le proiezione ufficiali di Venezia 70, anche se fuori concorso. Alla regia il messicano Alfonso Cuaron, che proprio qui al Lido fu lanciato molti anni fa con il suo Y tu mama tambien, e una coppia di attori massimi, George Clooney e Sandra Bullock. La deriva nello spazio di due lavoratori qualunque di una qualunque stazione spaziale americana in avaria, poi colpita anche – le disgrazie non arrivano mai sole – da una tempesta di detriti da collisione tra oggetti spaziali russi. Due uomini muoiono, sopravvivo il cazzeggione Matt (Clooney, chi se no), battutaro compulsivo e incallito che non risparmia storie e amenità anche nei peggio e più disperati momenti tra i cieli, e la dottoressa Ryan, il vero tecnico di bordo, una bravissima Sandra Bullock che si prende su su sé il peso del film e lo porta vittoriosamente alla conclusione. Dimenticatevi gli effettacci speciali mostruosamente dilatati, gli alieni a bordo, dimenticatevi le varie guerre dei robottoni, e le scoperte di pianeti sconosciuti e meravigliosi e/o insidiosi. Qui siamo lontano da ogni sci-fi iper spettacolarizzata e pure da quella con voglie altamente metaforizzanti. Film quasi naturalistico su gente qualsiasi, solo che le circostanze in cui si muovono sono straordinarie e l’avventura nasce da qui, dalla differenza tra i due elementi narrativi. Il bello di Gravity è la riduzione all’umano, allo stretto umano, di ogni narrazione fantascientifica, con un movimento di racconto dal fuori al dentro, dal macro al micro, che è il percorso esattamente opposto a ogni cinema fantastico/sci-fi. Un uomo e una donna dispersi, e la loro lotta per la sopravvivenza lassù a 700 chilometri da terra. La nave spaziale si guasta, due compagni non ce la fanno, i due sopravvissuti vagano nel vuoto attaccati da un cordone ombelicale, ma verrà il momento in cui sarà necessaro separarsi. L’obiettivo è salire su quel che resta di una nave spaziale russa, ma anche quella è avariata e non consentirà mai un ritorno a terra. Da lì l’unica speranza è puntare su una nave cinese a 100 chilomeri e attraverso quella tentare il rientro. Qualcuno ci riuscità, qualcuno di perderà nello spazio. I gesti, minuto per minuto, tra la morte e la vita. La disperazione, la speranza. Cuaron spoglia di orgni orpello anche narrativo, di ogni ridondanza, e ci consegna un’odissea nello spazio vicino di gente come noi. Nessuna epica. Nesun eroismo. Solo la quaotidianità spaziale. Qui a Venezia il film è piaciuto parecchio. Non so quanto piacerà ai giovinastri, ai giovanotti e alle giovanotte delle platee globali, e ai nerd assatanati di meraviglie tecnologiche e di filmoni grosssi, grassi e gonfi di CGI da ogni dove. Chissà se apprezzeranno questa avventura solo umana.
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