Jungle Fever, Class Tv, ore 20,50.
Del 1991, resta uno dei migliori film di un regista talentuosissimo eppure discontinuo come Spike Lee. È che il suo lavoro è spesso appesantito da intenzionalià didascalico-esplicative e da un furore ideologico che finiscono col mettere in ombra il puro narratore che c’è in lui. Le conosciamo, le sue ossessioni: la condizione dei neri americani e la loro mai superata subalternità, la vita devastata del ghetto, i complicati se non impossibili rapporti tra diverse etnie, massimamente tra afroamericani, italiani ed ebrei. La lucidità con cui sa illustrarci queste tensioni, difficoltà, ostacoli esistenzial-sociali lo pone di molte spanne sopra la media correttezza politica di tanti registi suoi connazionali e però la sua rabbia, l’urlo che sembra sempre invaderlo, deviano il suo lavoro verso il manifesto politico. Peccato. Questo Jungle Fever è però di strepitoso interesse, trattando di un tema bollentissimo, l’amore tra un nero – un architetto socialmente ben riuscito e apparentemente integrato – e una bianca, la sua segretaria italoamericana. Le reazioni che si innescano, nell’uno e nell’altro campo etnico, sono esplosive, quella storia infrange barriere troppo consolidate, frantuma troppi tabù perché possa continuare. Se vogliamo, siamo dalle parti di Douglas Sirk, quello di Secondo amore, quello in cui le diversità sociali si oppongono alla felicità. Un Sirk che non a caso diventerà il modello e il riferimento di Fassbinder e, più recentemente, del Todd Haynes di Lontano dal paradiso. Spike Lee non ha un’immediata vocazione per il melodramma, questo suo Jungle Fever ancora una volta è più un film di un militante che di un narratore, ma non lo si dimentica. La congiunzione tra passioni e contraddizioni di pelle bianca e pelle nera produce un dramma ad alta incandescenza. Wesley Snipes e Annabella Sciorra sono i due amanti impossibili. Il monumentale Anthony Quinn è il capoclan italiano. Ci sono anche una giovanissima Halle Berry e un rampante Samuel L. Jackson.
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