Film stasera sulle tv gratuite: IN UN MONDO MIGLIORE di Susanne Bier (sabato 12 ottobre 2013)

In un mondo migliore (In a better world), la7d, ore 23,15.
Ripropongo la recensione del film già pubblicata da questo blog l’8 febbraio 2011, prima che vincesse l’Oscar come migliore film straniero.

In un mondo migliore
, un film di Susanne Bier. Con Mikael Persbrandt, Trine Dyrholm, Ulrich Thomsen, Markus Rygaard, William Jøhnk Nielsen. Danimarca Svezia 2010.
Il film della danese Susanne Bier è tra i più premiati della stagione, ha vinto il Golden Globe come migliore film straniero ed è in corsa per l’Oscar. Un turgido melodramma che ruota intorno al tema della malvagità infantile già trattato (molto meglio) da Haneke in Il nastro bianco. Invece qui tutto è greve, effettistico, esteriore, rozzo. Nulla ci viene risparmiato per strapparci urla di raccapriccio e indignazione.

Il Golden Globe come migliore film in lingua straniera l’ha già vinto (quel Golden Globe che “non interessa a nessuno”, come l’ha inelegantemente introdotto il cerimoniere della serata, il criticatissimo Ricky Gervais). Adesso In a better world della danese Susannne Bier punta al bersaglio grosso, all’Oscar, sempre nella categoria best foreign film, anche se dovrà vedersela con il favorito della cinquina, Biùtiful di Iñarritu, che è molto piaciuto in terra stutunitense (dalle parti di questo blog invece si fa il tifo per La donna che canta-Incendies del canadese Denis Villeneuve).
Bene, diciamolo subito, In un mondo migliore non si merita il Golden Globe, meglio avrebbero fatto a darlo a Io sono l’amore di Guadagnino, tantomeno si meriterebbe la statuetta dell’Academy. Ma tutto può accadere, perché è noto che i premi ai film stranieri in America sono i più imprevedibili e casuali, i giurati di solito sono del tutto ignari dei titoli candidati e votano non tanto per il migliore ma semplicemente per quello che conoscono meglio, magari solo perché il dvd gli è arrivato a casa prima degli altri.
Questo di Susanne Bier, peraltro signora simpatica e gradevole (vedere su YouTube la consegna del Golden Globe), è il classico film sovrastimato e ricattatorio verso lo spettatore e i giurati dei vari premi e festival, visto che parla di bambini rimasti orfani che sviluppano comportamenti aggressivi e paranoidi, di desolate terre africane alla mercè di predoni sanguinari e pervertiti, di famiglie allo sfascio, e come può un’anima appena appena sensibile resistere a un simile spettacolo? La signora Bier davvero non ci risparmia nulla, ricorrendo anche ai colpi bassi, bassissimi, per strappare a noi che stiamo in sala grida di raccapriccio e di indignazione, e arriva a mostrarci, nella parte africana del suo film (una landa che ricorda molto il Darfur, anche se la regista ha smentito dicendo che trattasi di un luogo astratto e indefinito dell’Africa subsahariana), gambe purulente divorate dalla cancrena in primo piano e donne dal ventre squarciato a colpi di machete, perché c’è un pazzo in giro che scommette sul sesso dei feti e poi per fare la verifica li strappa alla madre. Orrore orrore orrore. Servitoci senza un minimo di stile, di distanza dalla materia, e nemmeno di pietas, secondo l’insano principio che per sensibilizzare non bisogna nascondere nulla. Ma quando mai? Questa è macelleria, altro che impegno. La danese Bier ha la mano greve, la nordica grevità di certe birre spesse, di certo cibo unto e bisunto e indigeribile. Mano greve nel dipanare tutta la storia, e non solo nelle scene grandguignolesche.
Christian è un ragazzino cui è appena morta di cancro la giovane, amatissima madre e che il padre, sempre in giro qua e là per l’Europa per lavoro, affida alla nonna in una meravigliosa casa nella campagna danese (la nonna, capelli grigi e taglio squadrato alla Vergottini puro anni Sessanta, è fantastica, una specie di Ingrid Thulin âgée e racée, o se preferite la Valentina di Crepax come potrebbe essere a quasi 80 anni, e la casa sembra quella, in versione rammodernata con tutti i suoi bei comfort, vista nel memorabile Ordet di Dreyer). A scuola deve vedersela con un bullo con l’aria da piccolo boss che ha preso di mira in particolare il mite Elias, che di Christian è il compagno di banco e l’unico amico. Intanto conosciamo anche il babbo di Elias, medico senza frontiere che alterna lunghi soggiorni come chirurgo nel disgraziato villaggio africano di cui sopra, ad altri nel villaggio danese, dove è alle prese con una crisi coniugale in procinto di sfociare in divorzio. I due ragazzini vivono in una precaria condizione affettiva-familiare e finiscono con l’appoggiarsi a vicenda. Christian, non sopportando più di vedere Elias bullizzato dal piccolo boss, dà a costui una lezione, ed è una lezione dura, prima i pugni, poi un coltella puntato alla gola. Christian trionfa sull’avversario, ma questa vittoria gli dà la vertigine, lo sballa, lo fa sentire onnipotente, un vendicatore, un raddrizzatorti con la missione di punire i prepotenti che incontra sulla sua strada. Lo farà con un tizio che ha minacciato il padre di Elias, e lo farà usando l’esplosivo. Non è più cosa da ragazzini. Seguono drammi e controdrammi, ferite, ospedali, coma e ritorno dal coma, quasi suicidi infantili, fino all’happy end. Un turgidissimo melodramma che ruota intorno all’inquietante tema della crudeltà infantile. Sta qui il centro di In un mondo migliore. Il film si regge sulla figura di Christian, sulla sua progressiva trasformazione in piccolo mostro, sulle sue paranoie e ansie di pulizia del mondo, costi quel che costi, anche con la violenza, anche con l’assassinio.
Susanne Bier deve aver visto Il nastro bianco di Michael Haneke, con quella silenziosa e minacciosa banda di bambini. Deve anche aver letto un classico come Il signore delle mosche di William Golding, da cui Peter Brook trasse nel 1963 un gran film. I bambini possono essere crudeli, ci dicono Haneke e Golding/Brook. Solo che nei loro lavori non si forniscono spiegazioni, la malvagità dell’infanzia viene raccontata e mostrata fattualmente, mai spiegata né tantomeno giustificata. Sta in questo inespresso la potenza e il fascino sia di Il nastro bianco sia del Signore delle mosche. Invece In un mondo migliore scade nella banale sociologizzazione e psicologizzazione, ci suggerisce che l’aggressività di Christian è frutto di un trauma quale la morte della madre e della lontananza del padre, e che Elias è così debole perché pure lui ha una famiglia interrotta. Colpa della società, della famiglia ecc., secondo quella visione deresponsabilizzante che ci affligge da qualche decennio (e in questo la Danimarca non è diversa dall’Italia). Con un simile sociologismo d’accatto il film non riesce mai insinuarsi in profondità nelle nostre coscienze. La parte africana poi è pleonastica e gratuita, non ha alcuna giustificazione narrativa, non si salda con il resto della storia, è solo un pretesto per strapparci grida di raccapriccio e instillarci il senso di colpa. Il padre di Elias avrebbe potuto svolgere un qualsiasi altro lavoro in qualsiasi altra parte del mondo e la storia di suo figlio e dell’amico Christian si sarebbe potuta svolgere allo stesso modo.
Il meglio sta nella conduzione degli attori, nel piglio robusto e deciso con cui la signora Bier conduce la vicenda, poca finezza però senso sicuro dello spettacolo e della messinscena. Lo sguardo torvo e come perso dentro di sè di William Jøhnk Nielsen, che è Christian, non si dimentica, ed è più eloquente di tutte le inutili spiegazioni offerte dal film. C’è solo un momento in cui In un mondo migliore osa andare oltre il conformismo e il risaputo, ed è quando mette alla berlina certi limiti e ottusità del welfare scandinavo, incarnato da insegnanti e assistenti sociali molto politically correct che non capiscono mai niente di quello che succede (il bullismo in classe, la crisi di Christian e Elias), ciechi e ottusi, sempre pronti a sentenziare e a prendere i provvedimenti sbagliati. E che ricordano gli altrettanto sciocchi assistenti sociali di Hereafter di Clint Eastwood, quelli che allontanano il bambino dalla madre, per il suo bene naturalmente, e lo affidano a una famiglia in cui lui non vuole stare. Ma il coraggio della Bier si ferma lì, il resto è piatto e uniforme come la campagna danese che fa da orizzonte alla vicenda.
Però dev’essere proprio questa rassicurante medietà a fare di In un mondo migliore un film acchiappapremi. Perché, oltre a Golden Globes e nomination all’Oscar di cui si è detto, si è preso anche un paio di statuette all’ultimo festival di Roma, il Marc’Aurelio d’Oro del pubblico comel miglior film e il Marc’Aurelio d’Argento, Gran Premio della Giuria. Adesso aspettiamo la notte del 27 febbraio, quella degli Academy Awards, per vedere se giustizia o ingiustizia sarà fatta.

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