Il film è nei cinema da giovedì 17 ottobre. Ripubblico la recensione scritta dopo la proiezione del film al festival di Venezia.La prima neve, di Andrea Segre. Con Jean-Christophe Folly, Matteo Marchel, Anita Caprioli, Peter Mitterrutzner, Giuseppe Battiston, Paolo Pierobon, Sadia Afzal, Leonardo Paoli, Lorenzo Pintarelli, Andrea Pennacchi, Roberto Citran. Presentato alla Mostra di Venezia 2013 nella sezione Orizzonti.
Film di una correttezza politica asfissiante. In una valle del Trentino immigrati buoni come gli angeli e locali generosi e disponibili come santi di calendario. Dani viene dal Togo e ha un brutto trauma alle spalle. Michele è un ragazzino troppo vivace che ha perso il padre. Si incontreranno, e sarà mélo. Clamoroso ritorno a De Amicisi e a Carolina Invernizio, però travestito da esemplare manifesto dell’Italia multiculturale. Preparare i fazzoletti. Sarà un successo (ma il mio voto è: 4).
Una delle peggiori delusioni di Venezia 70. Ci si aspettava molto da Andrea Segre dopo la sorpresa del suo Io sono Li, uno dei pochi nostri film recenti ad aver varcato i confini, fatto il giro dei festival e ramazzato premi ovunque, compreso il Lux 2012 del parlamento europeo. Ma questo La prima neve è di un buonismo imbarazzante, come non usa più, una favola dolciastra e fintissima, un apologo edificante quanto improbabile sull’arcadia (arcadia?) della nuova Italia multikulti cui solo i duri di cuore e i reazionari irriducibili si ostinerebbero a non credere. In un villaggio di alta montagna del Trentino seguiamo la vita quotidiana di Dani, arrivato lì come rifugiato politico dopo la fuga dal paese natio, il Togo, e dalla sua città sempre nostalgicamente amata e ricordata, Lomé. Ha una bambina di non ancora un anno, ma la moglie no, non è con lui, è morta in un centro immigrati subito dopo aver partorito, stremata dalla drammatica traversata su un gommone (e già questo ditemi se non è De Amicis). Intorno a Dani la comunità del paese, comunità assai civile, partecipe e solidale senza la minima traccia di razzismo e rigetto né verso di lui né verso altri africani. Un’arcadia, appunto. Che esiste solo al cinema, in questo cinema delle buone intenzioni e dell’illusione. Dani è un ragazzone buono e operoso, lavora presso l’anziano falegname Pietro che a modo suo, da burbero e silente montanaro, gli si è affezionato. Comunque tanto contento non è. Sente un po’ stretta quella valle, da cui vorrebbe – l’ingrato! – andare via per raggiungere un amico a Parigi. Poi quella bimba. Lui non ce la fa a fare il tenero padre, la figlia gli ricorda troppo l’adorata moglie defunta e ogni volta che la guarda lui soffre, rivive il trauma e il calvario. Fin qui la storia di Dani. Dall’altra parte ecco Michele, un bambino inquieto, iperattivo, cattivo studente, discolo fino alla ribellione, sempre in conflitto con la bella mamma vedova (Anita Caprioli, difatti). Già. Michele ha perso il padre, un lutto che non è ancora riuscito a superare; ma come l’ha perso? cos’è successo esattamente? perché ne incolpa la madre? Il film traccia il progressivo quanto prevedibile avvicinamento tra l’uomo venuto dall’Africa e rimasto senza moglie, e il bambino di montagna rimasto senza il padre. Due mondi, due vite che sembrano non avere niente in comune, ma che troveranno un punto di contatto, fino a stabilire un’imprevedibile alleanza. Con un prefinale e un finalone che faranno versare calde lacrime alle folle: perché questo, se la distribuzione e il marketing faranno le cose giuste, potrebbe diventare un successo al box office. Andrea Segre mette a punto un irresistibile melodramma dei tempi antichi, aggiornandolo solo in apparenza alla nuova Italia. Il Male è espunto da questa favola-mélo, qui ha cittadinanza e trionfa solo il Bene. Gli immigrati sono esseri angelicati o quasi, senza la minima macchia, figurine da presepe natalizio. Come del resto, specularmente, lo sono i valligiani, sempre pronti a dare un mano a quegli uomini sfortunati venuti da oltre il Mediterraneo. Il massimo del Male, si fa per dire, è il furbo del paese che fa l’amore – il porco – con la mamma di Michele, coltiva e vende marjuana e, insieme al suo amico (Giuseppe Battiston, qui ridotto a macchiettone), sogna di investire i proventi in improbabili speculazioni. Segre dosa sapientissimamente, e qui il pensiero va a Carolina Invernizio e ai maestri del feuilleton e del fotoromanzo, i non molti snodi narrativi e i colpi di scena. Ma sarebbe meglio dire le rivelazioni, che riguardano la moglie di Dani e il papà di Michele. Preparate i fazzoletti. Questo La prima neve più procede e più tende a slittare rischiosamente verso L’ultima neve di primavera, il mitologico lacrima-movie anni Settanta di Raimondo del Balzo (anche se qui scomparse infantili non ce ne sono, state tranquilli). La prima neve somiglia a quei vasetti di miele che il falegname Pietro e poi anche Dani confezionano in serie, con un tasso zuccherino da coma diabetico. Il bello è che verrà preso per un film di massimo impegno sociopolitico, per un esemplare e imperdibile apologo sull’Italia multietnica e il buono della convivenza tra più culture. Se ne scriverà e parlerà molto nei migliori salotti e tinelli ben orientati ideologicamente, si scomoderanno ministri, ministresse e ministeri e si apriranno dibattiti. Invece è solo un presepe di montagna con gli immigrati a fare i nuovi re magi.
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