Oh Boy – Un caffè a Berlino, regia di Jan Ole Gerster. Con Tom Schilling, Friederike Kempter, Marc Hosemann, Justus Von Dohnany, Ultrich Noethen, Frederick Lau, Michael Gwisdek.
Un piccolo film tedesco in bianco e nero che in patria si è preso tutti i premi possibili. Ventiquattr’ore nella vita di un ventenne perplesso e irrisolto, tra incontri voluti e incontri casuali. L’odissea di un piccolo Ulisse joyciano in una Berlino meravigliosa. I tratti son quelli del solito cinema giovanottesco-giovanil-minimalista, tra cazzeggi e inconcludenze. Ma non è così. Oh Boy è un film che, nella sua apparente svagatezza, è invece assai solido, con un impianto perfino teatrale, e con parecchie ambizioni. Ottimo risultato: se non si raggiunge il massimo è per via di certi piacionismi di troppo. Da vedere. Voto 7+
Il film rivelazione del cinema tedesco di questi ultimi tempi, vincitore di ben sei Lola Awards 2013, gli Oscar made in Germany, dopo aver battuto clamorosamente sia il favorito e molto bello Il sogno di Barbara di Christian Petzold, sia il colossale Cloud Atlas, in lizza pure lui per via della quota teutonica di produzione. Film di un cineasta esordiente (già attivo però sul set di Goodbye Lenin come assistente), di budget e strutture leggere, girato in un bianco e nero molto autoriale che esalta magnificamente Berlino, città-feticcio alla pari della Manhattan di Woody Allen o della Parigi di tanta Nouvelle Vague. Gran successo al box office in patria, e finalmente approdato nei nostri cinema: almeno, nei pochi che un piccolo film così si può permettere. Qua a Milano lo danno al Centrale, minuscola sala in centro, nelle altre non so. Se lo proiettano dalle vostre parti non perdetevelo, non è un capolavoro, ma bello sì, lo è. Piuttosto bello. Ventiquattr’ore nella vita di un qualunque ragazzo berlinese di nome Niko, vent’anni e qualcosa, ma più vicino ai trenta che ai venti, nullafacente, avendo mollato già da un paio di anni la facoltà di legge e campando con l’assegno mensile di papà che nulla sa dell’abbandono degli studi. Niko si muove in una Berlino ora riconoscibile (Friedrichstrasse e la sua Banhof, la Fernsehturm dietro Alexanderplatz, la Karl Marx Allee), ora anonima e qualunque, ma sempre bellissima, sopra, nelle sue strade e nei suoi building, e sotto, nei meandri della metropolitana. Una piccola odissea da piccolo Ulisse joyciano, che tocca ambienti e soprattutto persone, in una sequenza di incontri programmati (pochi) e casuali (quasi tutti) di Niko con vicini, amici, fidanzate, possibili fidanzate, gente di famiglia e sconosciuti. Vedendo quel bianco e nero, e questo ragazzo vagante e un po’ anima in pena, esulcerata, si pensa alle molte traiettorie metropolitane che ci è capitato di vedere al cinema. Mica per niente si son tirate fuori per Oh Boy parentele e ascendenze illustrissime, a partire da Fino all’ultimo respiro di Godard. La partitura jazz fa anche pensare al primo di tutti i film di minimalismi e minimi fatti e percorsi esistenziali urbani, Ombre di John Cassavetes (anno 1959!, e opera seminale come poche). E poi, Woody Allen, e quel cinema giovane-americano ultraindipendente intessuto di microvite, di cazzeggio e inconcludenze, di oscillazioni tra il niente e il niente, di cui l’ultimo esempio è il bellissimo Frances Ha di Noah Baumbach (sceneggiatore di Wes Anderson, già regista in proprio con Il calamaro e la balena) visto alla Berlinale il febbraio scorso e non ancora arrivato in Italia. Cui potremmo aggiungere Gimme the Loot di Adam Leon, dato a Cannes 2012 a Un certain regard. Le affinità di tutto questo cinema con Oh Boy sembrano tante. Sembrano. Perché il film di Jan Ole Gerster si discosta da quei modelli, non c’entra molto con i nouvelle-vaguismi di vario tipo di ieri oggi domani, condividendone semmai solo certi eterni malesseri e malumori giovani, ma non i modi, non la forma, non lo stile, non i linguaggi. Niko è l’ennesima incarnazione del giovanotto spaesato di fronte al muro ostile e apparentemente invalicabile del proprio futuro (e il regista ovviamente cita come suo libro di culto Il giovane Holden, cosa se no?), ma la costruzione e la narrazione di Oh Boy non sono per niente avanguardistiche e immediatiste-spontaneiste, anzi son solidamente, rigorosamente tradizionali, nonostante le apparenze depistanti. Il racconto procede per blocchi, o se volete capitoli, episodi, ognuno attentamente costruito e scritto, spesso con al centro un personaggio che di quel segmento diventa il protagonista con monologhi e assoli addirittura teatrali: il vicino, l’ex compagna di classe, l’amico attore senza lavoro, e avanti così. Qui ci sta dietro una sceneggiatura di ferro, altro che le improvvisazioni jazzistiche o rap di tanto cinema giovane (e americano), qui tutto è pre-definito. Del cinema indie Oh Boy non ha i vezzi, i manierismi, non ha l’uso feticistico e smodato della camera mobile, handycam, steadycam, a mano, in spalla, a seguire-pedinare-stalkizzare istericamente i personaggi. Le inquadrature sono costruite spesso a camera fissa e le carrellate e altri movimenti ridotti all’essenziale e al necessario. Un film maturo, adulto nella sua strutturazione, altrochè. A tratti ottimo e molto riuscito, qualche volta meno. Non tutti i ritratti – d’ambiente, di persone – sono interessanti allo stesso modo. Ottima la scena di quasi-apertura con la barista “vuole il caffè colombiano o arabico?”, ottimo il quasi surreale incontro con lo psicologo che ritira la patente a Niko. Meravigliosa la nonna del ragazzo pusher, non convincono invece lo sketchettone con il vicino delle polpette e l’ironia un po’ greve sullo spettacolo di teatro-danza postbauschiano. Il centro, il perno, resta il faccia a faccia, che poi è un redde rationem di pura temperie edipica, con il padre, con quella tremenda scudisciata finale: “Figlio mio, l’unica cosa che posso fare adesso per te è non fare più niente per te”. Le ambizioni del film, molto ben celate dietro l’apparente cazzeggio, si svelano in due momenti cruciali. Il primo: la visita di Niko al set in cui si sta girando un pessimo mélo con un ufficiale nazista innamorato di un’ebrea, mentre fuori dal teatro di posa le comparse con svastica si fumano la sigaretta insieme a quelle con la stella di David. Modo alquanto laterale, ma inequivocabile, di rimandare all’abisso, al trauma e alla colpa che ancora e sempre tormentano la Germania, l’Olocausto. Anche se, ambiguamente, Gerster non si astiene dall’uso dell’ironia. Ed è ancora il fantasma dell’Olocausto a emergere dal momento più alto e potente del film, l’incontro con il vecchio al bar, e dal suo racconto: “Quella notte mio padre mi portò fuori, mi mise in mano due sassi e mi disse: tira, butta giù quella vetrina. Così feci e così facevano gli altri in strada, tutte le vetrine furono infrante”. Ora, il medio spettatore italiano stenterà a cogliere, ma credo che il tedesco abbia invece colto molto bene il riferimento alla Kristallnacht, la Notte dei cristalli, il pogrom antiebraico sobillato dai nazisti la notte tra il 9 e 10 novembre 1938. E parliamo di cinema minimalista? No, questo è cinema bello strutturato e molto consapevole di sé che pretende di misurarsi anche con temi alti, seppure in leggerezza. Che si permette pure la civetteria di un leitmotiv (si potrà pure usare questa sdata parola, in fondo siamo nella patria di Wagner, che il leitmotiv l’ha inventato, giusto?), un piccolo, delizioso tormentone che percorre e sigla Oh Boy fino alla scena conclusiva: quello di un buon caffé che il buon Niko vorrebbe tanto bersi senza però mai riuscirci. Una volta gli mancano i soldi, un’altra gli spiccioli per la macchinetta, un’altra il bar ha già chiuso la macchina, e sembra di rivedere i commensali del Fascino discreto della borghesia di Bunuel che non ce la fanno mai a consumare l’agognata cena. Teniamolo d’occhio, Jan Ole Gerster, e non facciamo l’errore di confinarlo nel calderone del cinema minimal-giovanilista.
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