Recensione. QUESTIONE DI TEMPO: rom-com con un po’ di sci-fi. Prima parte notevole, la seconda meno

Al cinema da giovedì 7 novembre 2013. Ripubblico la recensione scritta dopo la proiezione al Festival di Locarno lo scorso agosto.About Time 1Questione di tempo (About Time). Regia di Richard Curtis. Con Domhnall Gleeson, Rachel McAdams, Bill Nighy, Lydia Wilson, Lindsay Duncan. Uk. Visto in Piazza Grande al Locarno Film Festival. about time
Una rom-com in puro stile british. Mica per niente il regista
Richard Curtis ha nel suo curriculum le sceneggiature di Quattro matrimoni e un funerale e Notting Hill. Tim scopre di avere il dono di poter tornare indietro nel tempo, lo userà per correggere errori e migliorare il tasso di felicità. Conosce Mary, e sarà l’inizio di una lunga storia. Prima parte meravigliosa di humour squisitamente insulare e battute inarrivabili. Poi il tasso zuccherino si alza e il film rischia di schiantarsi sugli scogli dei buoni sentimenti. Nonostante le apparenze disincantate, il film più familiar-familista da molto tempo in qua (ed è inglese!). Sorpresa per noi italiani: Il mondo di Jimmy Fontana fa da colonna sonora alla scena del matrimonio e tutti lo cantano entusiasti. Richard Curtis nel suo videomessaggio agli spettatori di Locarno l’ha definita “una delle più belle canzoni dopo i Beatles”. Non so se sia vero, però fa piacere. Voto tra il 6 e il 7About Time 2
E lo chiamano il re della brit-com. Titolo meritato, essendo Richard Curtis il signore che ha firmato gli script di Quattro matrimoni e un funerale, Notting Hill, Bridget Jones e diretto, oltre che sceneggiato, Love actually e il più recente I love Radio Rock, trionfo al box office il primo, semidisastro il secondo (e comunque assai brioso e acuto nel suo rievocare l’epopea delle radio pirata inglesi anni Sessanta). Un uomo, uno scrittore, un regista che oggi incarna al meglio la britishness al cinema, quella cosa in cui si miscelano l’inconfondibile humor insulare (comprese le note in nero e il paradosso), una certa sprezzatura dandistica verso sé e il mondo, soprattutto quello oltre Dover, il culto castale della nobiltà (anche intellettuale, come in questo film) e insieme della rozzezza plebea. Che quando la miscela vien bene c’è da cadere ammirati, altroché, e succede anche a me che pure la britishness m’è sempre stata un po’ sui nervi, per non dire in un altro posto, con tutto quell’arietta di superiorità malnascosta e tutta la retorica incorporata. Bene, questo di Curtis è uno dei casi in cui cadere ammirati. About Time, così quintessenzialmente inglese nei suoi ambienti, nei caratteri e ovviamente nei dialoghi scintillanti di battute inarrivabili (per noi mediterranei grevi e sempre troppo tendenti al fescennino), è una delizia fino a un certo punto, diciamo fino alla metà. Del poi diremo. Intanto il plot, che sull’impianto da rom-com classica – boy meets girl con le conseguenze del caso: matrimonio, figli ecc. – inserisce, pur se in dosi controllate, il genere viaggio nel tempo. Difatti il protagonista Tim, un bravo ragazzo di famiglia intellettual-borghese (il padre filosofo si è ritirato dall’insegnamento a 50 anni in una villa di campagna per poter giocare a ping pong col rampollo, e se questo non è brit-com), scopre a 21 anni che i maschi del casato hanno il dono speciale di poter tornare indietro nel tempo e riscrivere così pezzi della propria vita. Non aspettatevi i soliti salti all’era dei romani con giochi gladiatori e incendi neroniani, o sui vascelli di Colombo alla scoperta dell’America, o in compagnia di Napoleone tra le nevi russe, ma no, qui ci si limita a viaggiucci nel proprio passato anche recentissimo, in modo da correggere gli errori e pilotare il destino a proprio favore. Tant’è che la prima volta che Tim vi ricorre è quando, respinto dall’amica bionda e bona della sorella perché “è troppo tardi e domani parto”, si fa catapultare a qualche settimana prima onde anticipare la dichiarazione d’amore. Ecco, cosette così, per ottimizzare il tasso di felicità futura. Grazie a Dio non si scade nella sci-fi più di maniera e il trucchetto è messo al sevizio della commedia, onde oliarne al meglio i meccanismi e virare verso l’happy end. Tim incontra Mary, un’americana a Londra, ed è quasi innamoramento a prima vista (si fa per dire, perché i due si conoscono in un appuntamento letteralmente al buio, in un locale senza luce dove si parlano e un po’ palpeggiano nell’oscurità). Peccato che lei sia già fidanzata, e così il nostro fa il suo bel viaggetto all’indietro per beccare e opzionare Mary prima che l’altro si introduca nei loro affari. Funzionerà. I due si sposeranno, avranno figli. Intanto intorno all’asse Tim-Mary ruotano le altre esistenze e gli altri caratteri. Il padre-filosofo, che neppure di fronte al cancro e alla prospettiva di una dipartita imminente perde il suo britannicissimo aplomb, il disincanto e l’ironia. La madre (“chi, quella che sembra Andy Warhol?”, la descrive un tizio dalla lingua biforcuta), di quella tempra d’acciaio che non si spezza e non si scheggia nelle difficoltà, tempra che permise all’Inghilterra di metter su l’impero che sappiamo e dominare per quasi un secolo il mondo. Lo zio svagato che sembra uscito da Wodehouse. La sorella bella e però autodistruttiva. Poi amici, colleghi (Tim fa l’avvocato in uno studio londinese) e varia umanità. L’apice, drammaturgico e non solo del film, è il matrimonio. Magnifica, lunga sequenza in cui Curtis dà il meglio di sè e del suo cinema, tutti i personaggi raccolti nel momento di massima coralità, con passaggi rapidi dal macro al micro, dal gruppo al singolo e viceversa, e un temporale furioso che bagna gli sposi e gli invitati, solleva le gonne, svelle i padiglioni, distrugge torta multipiano e trionfi di cibo, però nell’allegria di tutti che, inzuppati e felici, si rifugiano dentro casa a sentire il papà prounciare al brindisi un gran discorso in onore del figlio. Sposa molto bagnata, e quel che segue lo potete immaginare. Da questo momento però il film declina, perde la sua compattezza e anche le sue punte brillanti e acide, si smussa. Il perfetto amalgama agrodolce si scompone e rivela ingredienti che non riescon più a quagliare come si deve. È che il dolce, anzi il dolciastro, anzi lo zuccheroso-saccarinoso, anzi la melassa prende il sopravvento su tutto il resto e About Time, pur mantenendosi sempre su livelli che la nostra commedia se li sogna, incomincia a stuccare, come sempre il troppo zucchero. Incredibilmente quello che era partito come disincantata brit-com e rom-com si trasforma in spudorato elogio dei buonissimi sentimenti familiari. Viva il matrimonio, viva la monogamia (Tim si spinge fino alle soglie del tradimento, ma non le varca), viva la famiglia numerosa con tanti pargoli che di meglio al mondo non c’è. About Time è un inno ai family values come non si vedeva da un bel po’ e io, che pure continuo a pensare che la famiglia debba restare un riferimento imprescindibile in questo mondo incasinato di oggi, mi son sentito un attimo a disagio di fronte a tanto trionfalismo materno-paterno-filiale (sarà che non ho figli, ecco). Poi dicono dell’Italia e del cinema italiano, che son soprattutto gli inglesi a rinfacciarci, nell’eterno gioco cattivo e pigro degli stereotipi etnici, il mammismo, il familismo più o meno amorale, il porre i vincoli di sangue prima di tutto, anche dei doveri di cives. Eppure non ricordo negli ultimi anni dalle nostre parti un film così spudoratamente family-oriented come About Time. Il problema è che, come sempre nelle narrazioni, i buoni sentimenti e gli intenti edificanti funzionano assai peggio del loro opposto, son noiosi, e quando il vizio si redime e si cangia in virtù, noi spettatori o lettori cominciamo a sbadigliare. Curtis, navigato com’è, commette l’errore di lasciarsi andare troppo, e troppo poco britannicamente, alla commozione, se non proprio alla lacrima, e rischia di rovinare nella seconda parte del suo film tutto il buono e l’ottimo mostrato nella prima. Era proprio necessario che Kit Kat, la sorella bella e pazzariella con la tendenza a scegliere l’uomo sbagliato e stronzo, diventasse (sempre col solito trucchetto del viaggio del tempo) moglie e madre esemplare? Oltretutto impalmando il ragazzo che lei aveva sempre considerato di nulla sexitudine (“Chi? Quello coi capelli da Muppet?”, aveva detto al fratello Tim voglioso di combinarle un appuntamento con lui). La coppia protagonista. Domhnall Gleeson è una scoperta quale commediante, non sbaglia i tempi, ha la faccia e i modi inglesemente giusti. La brit-com in crisi d’astinenza di attori maschi dopo il passaggio di Hugh Grant a ruoli altri e più maturi, ha trovato forse (servono ulteriori conferme) il suo uomo nuovo. Rachel McAdams è al solito impeccabile, ma sguazza nei toni della commedia con meno naturalezza del suo partner. Bill Nighy, il papà, è semplicemente meraviglioso. Ma la vera sorpresa di About Time è il ripescaggio, la rivalutazione e il riposizionamento d’alta gamma di una pop-canzone italiana dei Sixties, Il mondo di Jimmy Fontana. La adora il padre di Tim, che mostra con orgoglio il vinile d’epoca al figliolo (e noi basiti), e diventerà la colonna sonora della scena del matrimonio. Tutti a cantarla a gola spiegata e in italiano, a partire dallo sposo. No, stanotte amore non ho più pensato a te, ho aperto gli occhi per guardare intorno a me ecc. E scusate, un po’ di orgoglio tricolore lo si prova. Nel videomessaggio agli spettatori di Locarno Richard Curtis ha ricordato la centralità sempre avuta per lui da Il mondo definendola addirittura “una delle migliori canzoni di sempre dopo i Beatles”. Grazie, Mister Curtis. In About Time comunque, in linea con il passato del regista, oltre al matrimonio c’è anche un funerale. Qui la colonna sonora è Into My Arms di Nick Cave e, ebbene sì, ci si commuove.

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